L’amore, l’odio, la vendetta e la pace: “L’eternità per ritrovarsi”

Ci sono due suggestioni. Due teorie, che ho avuto l’occasione di leggere o di formulare. Due idee che convergono sullo stesso punto, seppure siano sostanzialmente diverse, almeno nell’enunciazione, ma molto simili nel concetto più profondo e nel messaggio ultimo. Due rette incidenti che sembrerebbero opposte e in realtà, nei termini, lo sono anche, ma che arrivano entrambe lì, come fiumi che giungono egualmente al mare e contribuiscono a definire meglio i due sentimenti di cui parlano e di cui sono sostegno, argomento, appiglio e strumento. Due sentimenti tanto grandi, tanto immensi,tanto avvolgenti, capaci entrambi di infiammare i cuori, anche se con effetti completamente diversi e completamente opposti. Due sentimenti che sono agli antipodi, o dovrebbero essere agli antipodi in teoria, ma che si trovano molto spesso a convivere, negli stessi cuori, nelle stesse anime, negli stessi pensieri, e a volte il confine è talmente sottile da poter essere confusi e scambiati di posto: là dove cera uno, ci può stare l’altro, se il primo viene deluso, spezzato, tradito, strappato, il secondo è pronto a rimpiazzarlo e forse non conserva più nulla della scintilla originale, oppure ne conserva le fiamme e le trasforma a suo piacimento, o non riesce ad annullarlo, per quanto gridi più forte e per quanto sembri, talvolta, più allettante. Due teorie, due sentimenti e un solo articolo. Perché là dove c’è l’uno, l’altro dovrebbe essere naturalmente fuori dai giochi, ma la mente umana è complicata e nel cuore umano c’è posto per entrambi, al fianco, come rette parallele, o convergenti come linee che si sfiorano. Quei due sentimenti, questi due sentimenti, molto vicini, da essere dentro, nei cuori di tutti noi e soggetti imprescindibili delle due suggestioni che muovono le mie dita oggi sono i più grandi, i più indomabili,i più totali: l’amore e l’odio. L’amore e l’odio occupano tutto lo spazio, eppure sembra che ci sia posto per l’altro, in un angolo, in qualche recesso nascosto, o più vicino alla superficie di quanto si pensi. Chi prova amore può provare odio. Odio per qualcuno, odio per qualcosa, odio per chi ci ha fatto soffrire, o semplicemente odio viscerale, totale, positivo, odio per le ingiustizie, odio per le guerre, odio per i soprusi, che può far lottare ancora di più per la giustizia. E chi prova odio, chi ha il cuore appesantito dai rancori e schiacciato dall’ostilità, in qualche piccolo angolo di sé, non può non amare. Amare fosse anche un istante o un’immagine. Chi ama può odiare. Chi odia può amare. È certamente più bello dire la seconda frase piuttosto che la prima, ma la mente umana richiede molta capacità di discernimento ed è talmente complessa da meritare le definizioni più assurde e gli ossimori più imprevisti. E l’amore e l’odio scorrono attraverso queste righe, queste pagine, questa recensione, che non è una recensione, è una presentazione, è un incontro, è un modo per dire che, quando ci credi, non c’è sogno che non possa essere realizzato. E lo fa così, con due teorie di segno opposto, di messaggio simile, che tengono in primo piano l’amore e l’odio e introducono il concetto di natura. Di ciò che è naturale e di ciò che non lo è. Certo, il concetto di natura, come quello di normalità e di bellezza, è relativo e non va confuso con espressioni ingiustifficate di giudizi irreali. La parola innaturale siamo d’accordo fa abbastanza pena, soprattutto se viene applicata ai sentimenti e ai comportamenti umani, non ci sono comportamenti umani innaturali, o meglio ci sono, ma non sono mai quelli che fanno bene. Niente di ciò che rende felici può essere definito innaturale o, peggio, contronatura. Ci sono delle cose innaturali e sono i sentimenti peggiori, le cose che fanno del male e qualsiasi strada non sia la propria, quando si preferisce fuggire e scegliere una via che non è la propria naturale. Quello è innaturale,tutto ciò che fa del male o non fa del bene è contronatura, contro la propria natura e contro la natura umana, e contro qualsiasi logica, contro qualsiasi buon senso, contro qualsiasi cosa ci sia sopra o al fianco. Contro il destino, contro Dio. E succede ogni volta che non si sceglie la propria strada e si tenta di rinnegare la propria natura e si fugge, o ogni volta che si sceglie la guerra invece della pace,. Questi, sì, sono i soli comportamenti innaturali. O almeno secondo la prima teoria. La prima teoria che galleggia dalle prime righe di questo articolo è mia personale, che ho costruito negli anni e ho rafforzato con il mio modo di essere, di scrivere e di confrontarmi con il mondo. Una teoria che si nutre di suggestioni, che si è arricchita con i libri che ho letto e che si è esplicata con le righe che ho scritto: l’amore è naturale. L’amore è sempre naturale. Non esiste amore sbagliato, non esiste amore impossibile, non esiste amore innaturale. L’amore fa sempre bene, anche quando ci spezza il cuore e ci disintegra i pensieri. L’amore, anche quando ci ferisce, anche quando non è ricambiato, è illuso, è tradito, è cancellato e ne rimangono poche magre tracce ingiallite dal tempo, l’amore merita comunque di essere vissuto ed è quello che di più bello, di più dolce, di più semplicemente difficile e di difficilmente semplice che ci sia in natura. L’amore è natura. E trovo abbastanza superfluo e assurdo anche dirlo ora, eppure non fa mai male ribadirlo e non fa mai male riscriverlo nel caso qualcuno la pensasse in modo diverso, o si sognasse di parlare di amore contronatura. Non esiste amore contronatura. L’amore non è fatto di convenzioni,di regole, di sciocchezze simili. L’amore è un sentimento purissimo e non ci possono essere dogmi per l’amore, non ci possono essere cose che vengono ritenute giuste o sbagliate. L’amore è tra persone, sempre, e il fatto che ci siano persone che amano persone del loro stesso sesso o del sesso opposto o entrambi non sono che dettagli, che sfumature sottili, che pennellate diverse sulla stessa tela dell’amore. L’amore è la cosa che fa star bene, che ci fa sentire completi, che ci fa soffrire, certo, che ci fa incontrare difficoltà, che non è facile da coltivare, ma è naturale, scorre così, con facilità, negli angoli del cuore e trabocca in ogni antro di anima. L’amore è sempre giusto. Non esiste amore sbagliato. Ed è assurdo che chi ama venga trattato in modo diverso o ci siano persone che debbano essere ancora fatte sentire sbagliate perché amano. L’amore è la sola scelta giusta, lamore va scelto al di sopra di qualsiasi pregiudizio e di qualsiasi tentativo della gente di escludere. Se ami, non puoi sbagliare. Se ami, devi perseguire chi sei. Se ami, devi essere chi sei, uguale a te stesso, come Dio ti ha creato, se ci credi, o come qualsiasi altra cosa ti abbia reso quello che sei. L’amore è assecondare la propria natura. E, quando si ama, niente può essere sbagliato e niente dovrebbe essere mai ritenuto tale. Esiste una sola cosa contronatura. Irrimediabilmente e terribilmente contronatura, ed è l’odio. L’odio è un sentimento brutto, orribile, che non dovrebbe mai scorrere con facilità, che non dovrebbe mai essere semplice e che offende la natura di tutti e rende sì, rende contronatura, rende innaturali, rende sbagliati. L’odio, non l’amore. Eppure, se si cambia l’ordine degli addendi, il risultato può essere completamente diverso. E se si cambia il significato alla parola innaturale. Se si considera innaturale come altro, come qualcosa che esce dalla regola, come qualcosa di rivoluzionario, di positivamente rivoluzionario. Non so dove ho letto la seconda teoria, non è la mia, e io preferisco abbracciare la prima, ma, in ogni caso, ha il suo peso e ha la sua suggestione e trova, tra queste righe, il suo posto. È quella che sostiene, con uno sguardo completamente nuovo e rinnovato, limpido davanti ai cieli della vita, che l’odio è naturale, nel senso che l’odio è facile, che è molto più facile provare odio nei confronti delle cose,è la scelta più scontata, più ovvia, più naturale (per chi sostiene questa idea) e l’amore diventa innaturale, l’amore di tutti i tipi, l’amore rivoluzionario, l’amore sovversivo, l’amore che è difficile scegliere, che richiede sacrifici, sudore, che va costruito, coltivato e innaffiato, del quale bisogna prendersi cura, come una piantina che nasce in mezzo al deserto o come un sentimento capace di sconvolgere tutte le regole e tutta la semplicità dell’odio. E non si può negare che queste parole abbiano una qualche presa sull’anima e possano avere il loro senso. E significano, anche se detto in modo opposto,la stessa cosa della prima idea. Siamo tutti d’accordo, comunque lo diciamo, che l’amore dovrebbe essere sempre scelto rispetto all’odio. Al di là di qualsiasi definizione, l’amore è la scelta migliore, più naturale, o più difficile e rivoluzionaria, è la scelta più giusta, è la scelta che andrebbe sempre fatta, è la strada che andrebbe sempre presa, è la salita che andrebbe sempre scalata, è la discesa su cui bisognerebbe sempre volare. È tante cose. È tutto. È capace di assecondare i cuori, è capace di accompagnare le anime, è capace di sovvertire gli equilibri, è capace di rendere vane le barriere. È in grado di unire mondi, di avvicinare anime, di far fondere vite, di accostare corpi, di trasformare mani in carezze e sorrisi in baci. È capace di compiere il miracolo su ogni cuore, di bonificarlo dal dolore, di curarlo dalla sofferenza, di purificarlo dall’odio e di bilanciare il buio con il fulgore della sua luce. L’amore, comunque lo chiami, comunque lo dici, qualsiasi parola gli accosti, è tutte le definizioni possibili, è tutti i sentimenti possibili, è tutti i modi possibili, è tutte le parole possibili e dovrebbe essere sempre presente. Sottile, insinuante, insistente. In qualsiasi sentimento, infilarsi tra le linee del dolore, sbucare tra le rette dell’odio, fondersi con i gradini della rabbia, farsi spazio negli anfratti della solitudine. L’amore. La scelta, non una scelta. Non una possibilità, ma la possibilità. La possibilità più giusta, più naturale, più incredibile. L’amore che non si dovrebbe mai dimenticare, anche quando si odia qualcosa, anche quando si combatte contro altre persone, anche quando si è avvolti nel dolore, anche quando si cerca disperatamente la pace e si insegue la vendetta. Bisognerebbe sempre agire per amore, sostiene un personaggio del libro di cui parleremo oggi, bisognerebbe sempre agire per amore anche quando si agisce per vendetta. Non solo perché si vendicano le persone che si amano, ma perché l’amore non deve mai essere soppiantato dall’odio, schiacciato dai sentimenti di rivalsa, fermato dal desiderio di giustizia, che diventa sempre più spesso qualcosa di troppo grande, così grande da travolgere, da annullare, da farci credere che non esista. Non esista niente a parte la vendetta e l’odio. Eppure, anche nella vendetta, nell’odio, nel rancore, c’è spazio per l’amore. C’è spazio per l’amore come forza salvifica, che ritorna, che è come l’acqua che si infila in ogni fessura e può continuare a ricordare di esistere. Che l’amore esiste. E che anche tu esisti. L’odio può aiutare, ma solo l’amore può salvare. L’odio da solo non basta, l’odio da solo annulla, anche se ci pare che ci dia la forza, ma è una forza a tradimento, è una forza soverchiante, che tende a essere totalizzante, totalizzante fino ad annullare ogni altra cosa bella, a metterci un velo davanti agli occhi e al cuore, che ci impedisce di vivere altro e di cogliere, intorno, magari una crepa, una sbavatura, ma la sbavatura può fare la perfezione (come ha detto anche Ermal Meta), e da una crepa può entrare la luce. Si può avere una vita assolutamente dedicata alla vendetta, all’odio, al rancore, a volersi fare giustizia o comunque a inseguire qualcosa che presupponga un torto e un desiderio spropositato di rivalsa, come se il dolore si curasse davvero, procurandone altro ad altri, ma nessuna vita può essere davvero vissuta così, completamente così. Nessuna vita può davvero trovare pace nella vendetta, solo nella vendetta, e, se dopo di essa si può provare pace, non è l’appagamento dato da lei, ma è l’amore. L’amore che si ritrova nella pace, l’amore che si scorge nell’odio, l’amore che non può lasciare sola la vendetta. “Agite per amore, anche quando agite per vendetta”. Sono parole mie, forse, o forse sono parole che un personaggio, che esiste in un’altra dimensione, mi ha dettato, come suo motto e come punto centrale di tutto il libro. Agire per amore anche quando si agisce per vendetta non è un ossimoro irreale, non è un’affermazione assurda e antitetica, è questo, è la verità, è un modo per dire che l’amore non va tralasciato, l’amore non va annullato, l’amore va scelto e va tenuto con sé. Il dolore può annientare e il desiderio di vendetta può far perdere noi stessi,la strada e il senso dell’esistenza. Solo l’amore può salvare. L’amore che non è facile scegliere, o ricordarsi di tenere in primo piano quando ci sono altri sentimenti, eppure è il solo sentimento che può resistere anche ad anni e anni di trascuratezza e di inerzia. L’amore è lì, nel cuore, pronto a balzare dalle grotte sottomarine dell’anima, pronto ad arrivare in superficie, come un vento impetuoso, o come una dolce corrente che risale dal fondo. L’amore è lì. L’amore per chi si sta vendicando, l’amore per chi ci sta vicino, l’amore per noi stessi. L’amore per la bellezza del mondo. L’amore per la profondità del mare. L’amore che ti fa resistere, esistere e ti consente di vivere. L’amore che ti fa scoprire di avere ancora forza nel dolore e nello smarrimento, l’amore che, quando a volte la vendetta finisce, perché è arrivata alla meta, o perché il mondo l’ha fatta fermare, è il solo mezzo che può colmare le vite e può dare l’idea più vera, l’identità più giusta a ciò che si prova. Se ci fossero solo odi e vendette, una volta che vengono attutiti o parzialmente appagati, non resterebbe altro. E poco rimarrebbe da fare e da essere. Se, invece, l’amore viene sempre coltivato e ritrovato anche in mezzo agli altri sentimenti, se viene scelto come movente principale e come melodia che accompagna continuamente qualsiasi azione, allora, dopo, sarà la salvezza piena, sarà l’appagamento vero e potrà farci scoprire che può esistere pace nella vendetta, ma soltanto perché può esserci amore in mezzo all’odio. E queste pagine sono piene d’amore, sono colme d’amore,non esisterebbero senza amore. Non esisterei neppure io senza amore. E, invece, non solo esisto, ma vivo. Se vivere ed esistere non sono la stessa cosa, io, in queste pagine, faccio entrambe le cose, vivo ed esisto e vive ed esiste il libro di cui parleremo oggi, di cui parlerò oggi, il mio terzo libro, senza che si possa quantificare o dare un numero ai sogni, inatteso, inaspettato, vicinissimo al cuore, sorprendente seguito di un libro che pensavo che, per come era nato, non lo avrebbe mai avuto. Invece è successo, perché i miracoli accadono e accadono solo se tieni aperte le finestre del cuore, se sei capace di captare i segnali dell’anima e se hai la mente leggera, in grado di riconoscere la luce, quando ti sfiora e ti attraversa. È successo. Con le molle dell’anima che si sbloccano, così, all’improvviso o lentamente, senza poter ricordare il processo, ma con la convinzione che c’è un prima, io che leggo “Le corsare delle Antille e l’isola delle sirene” di La Vedova Rossa e penso che anche io vorrei tornare al mondo dei corsari, e c’è un dopo, una scintilla che non si può spiegare, un lampo che si può solo cogliere quando ti illumina: perché non il seguito de “L’ultimo dono prima di morire”? Sono qui. Siamo qui. “L’eternità per ritrovarsi” è quel seguito. Quel titolo. Quel libro. Il libro che vi presento oggi, con gli occhi colmi di lacrime, datato giugno 2023, tre anni dopo l’uscita del libro da cui ha avuto origine, da cui tutto ha preso il via, la pubblicazione, la storia, i personaggi, per ritrovarli tutti, da subito, a parte, ovviamente, quelli morti nel primo libro o nel frattempo, eppure non è esattamente corretto dire così. Perché è come se, in queste pagine,anche loro rivivessero ancora, con l’eredità che si espande nelle generazioni future. Perché, forse è questa la verità, nessuno di noi può essere immortale nel vero senso della parola, tutti siamo destinati a morire prima o poi, ma possiamo lasciare qualcosa di noi ai posteri, che possono continuare a parlare di noi,a prenderci come esempi, a vederci come punti di riferimento, come miti irraggiungibili, o come animi molto più umani di quanto sembri all’inizio. E, in questo libro, succede inanzitutto in un caso, in quel caso, in quel nome, il nome che risuona ancora, facendo tremare di terrore i nemici e di lusinghiera appartenenza i nipoti e i parenti, i nipoti che lui non ha mai conosciuto, non in questa dimensione o in questa vita, ma che conservano la sua eredità, che continuano a pronunciare o a portare il suo nome, magari sono diversi da lui, da come lui è stato, però ne hanno il cognome, il sangue, o solo l’impronta dell’amore e del ricordo: Fahdi al-Malekki, l’Immortale è morto nel primo libro, eppure vive ancora. Vive ancora nei suoi figli, nei suoi nipoti, in chi lo ha amato,persino in chi lo ha odiato, in chi lo ha temuto, in chi non lo ha capito, in chi lo ha perdonato, in chi lo prende come esempio di coraggio e in chi ne ricorda la vita e la morte eroiche con una vita e una lotta altrettanto eroiche, o in chi ne sente anche l’altra faccia, quella dei sentimenti, perché anche l’Immortale ha ceduto all’amore e perché cedere all’amore non è una debolezza, ma è un altro punto di forza. E la sua eredità è in ogni riga,la sua,come quella di Sara, lei, donna Sara Suarez de Alves, donna forte e fragile, donna sicura e tremante, donna che non ha avuto più rimorsi e donna che ha ricordato che non esiste amore impossibile, se lamore è vero e accende i cuori. E “L’eternità per ritrovarsi” è la loro eredità, è l’eredità di Sara, di Fahdi, di ciò che sono stati e di ciò che possono essere ancora per le loro famiglie. Ma non è solo la loro, è di tutti i personaggi precedentemente nominati, che ritornano, che continuano a far parte di una famiglia incredibile, già destinata a cambiare il mondo, che ci riporta a tantissimi temi del primo libro, esplicandoli in un altro modo o in modi vicini al cuore e a ciò che è già stato. L’ho scritto e l’ho detto e lo penso sempre, che “L’eternità per ritrovarsi” ha esplicato i punti nascosti e sopiti ne “L’ultimo dono prima di morire”. LI ha resi più vivi, più evidenti, più vividi. È un guazzabuglio di amore, di odio, di rabbia,di rancore, di pace e di ricerca della felicità, dell’incanto senza fine del mare, della sicurezza cercata della terra, dell’avventura, della vita, della scelta, della morte. E del tempo. Del tempo che passa e non cancella i ricordi. Del tempo che scorre e trattiene la vita. Del tempo che contempla la morte, ma neppure la morte può spegnere l’amore. Se non ci riesce l’odio, così innaturale e così assurdo, perché dovrebbe riuscirci la morte,che è crudele, ma è naturale e inevitabile? La morte non può niente sulla vita, neanche quando la spezza, la separa, la cancella prima del tempo ragionevole. Anche quando è solo un mezzo di altre mani umane, anche quando lascia un dolore profondissimo e una ferita incurabile in chi resta, anche allora non basta e non vince, perché la vita resta, la vita resta quando nasce nei corpi, ma anche quando sopravvive nelle anime. Nessuno è veramente morto, finché resta nei ricordi e nei cuori d chi rimane e di chi lo ama. Perché la vera morte sarebbe l’oblio, perché si è davvero morti, completamente, quando nessuno sente la tua mancanza o quando arrivi alla fine della vita, consapevole di aver fatto solo del male. Eppure anche chi ha fatto solo soffrire e ha causato solo dolore ha qualcosa, ha quell’istante supremo, quell’ultimo secondo di vita, in cui si trova davanti alla morte, che sa di morire sul serio, perché nessuno lo ricorderà, forse neppure chi lo ha odiato, ma,chissà (e questo potrebbe sovvertire l’affermazione fatta poco fa, come solo l’amore ci riesce) può essere in qualche modo vivo, vivo altrove, vivo vicino a chi lo ha amato in vita. Fosse soltanto una persona, una persona che si trova nell’altro mondo. Persino Matteo Lerici, quando muore, trova la sua pace, la pace di ritrovare forse sua madre e, anche se morirà senza lasciare ricordi, magari comincerà a vivere in un altrove, in un’altra dimensione, là dove pagherà per i suoi errori, e, forse, in questa stessa giustizia, troverà la sua eternità pacifica. Non so cosa c’è al di là, non lo sa Matteo, non lo sa Fayyad, non lo sapevano Fahdi e Sara, non lo saprà mai nessuno,possiamo fare ipotesi, oppure, semplicemente, avere fede. Fede in qualsiasi cosa, fede in noi stessi, fede negli altri, fede nell’umanità, fede nell’amore più forte di tutto, fede in Dio,perché no. La fede torna in questo libro, ancora di più che nell’altro, è la sola cosa che io ho sempre creduto che dovesse essere: conforto e luce. La fede viene usata troppo spesso come mezzo di divisioni e di ostacoli, eppure la fede è condivisa da tutti, è provata dai popoli che non dovrebbero combattersi perché cambiano i dogmi e gli assunti e dovrebbero solo sentire che condividono la stessa pace, che mirano alla stessa vita eterna e che coltivano la stessa luce. Poco importa se una religione crede nella Trinità e l’altra no, Cristianesimo, Islam, Ebraismo, altre hanno una cosa fondamentale in comune e solo quella dovrebbero ricordare, prima di puntarsi il dito contro e passare il tempo a chiedersi quale sia la religione più vera: il benessere spirituale che ricercano per i loro fedeli. E allora ci sono persone come Masuud che pregano in tutti e due i modi,facendosi il Segno della Croce e voltandosi verso La Mecca. E allora ci sono Ali e Pedro, pacifisti che uniscono le loro vite e avvicinano due mondi,come le loro due famiglie. E allora ci sono i loro figli che si adorano, ci sono le loro figlie che crescono insieme, ci sono le loro compagne di vita che si vogliono bene. E allora c’è spazio per tutti, nel loro cuore immenso e nella famiglia Alves, che non sarà mai una famiglia qualsiasi. C’è posto per chi ne fa parte da sempre, Pedro, Maria, Masuud, Aisha e anche Ali e i loro compagni e figli, e chi ne fa parte da poco, per elezione, per dolcezza, per amore. C’è posto per Alejandra, che non ha mai perso la fede, pur avendo affrontato prove difficili,che lasciano cicatrici ben più profonde sull’anima, Alejandra che ha scelto l’amore, Alejandra che ha scelto la luce, Alejandra che ha scelto il coraggio, Alejandra che ha scelto la sua natura buona, dolce, giusta, divertente, e ha trovato un posto nel cuore di chi la ama e di una famiglia che è la sua famiglia e di una casa in cui, non importa se dopo undici anni o una vita intera, può tornare anche Mita, con il dolore, con il tempo, con una nuova consapevolezza e con la certezza che c’è una sola cosa che conta, per cui si dovrebbe agire e per cui ci si dovrebbe fermare e restare davanti al mare e alla vita: sempre e solo l’amore, al di sopra di tutto.

© Arianna Frappini,

Intellettuale orientalista con particolare interesse per la cultura araba

Riproduzione riservata

Fonti:

Varie interviste di Ermal Meta

Citato “Le corsare delle Antille e l’isola delle sirene” di La Vedova Rossa

“L’ultimo dono prima di morire”, Arianna Frappini, Gruppo Albatros il Filo, Roma, 2020, ISBN: 9788878422506

“L’eternità per ritrovarsi”, Arianna Frappini, Gruppo Albatros il Filo, Roma, 2023, ISBN: 9788830678828

Foto della copertina, Screen scattato dall’autrice

Sette anni di Libri senza pregiudizi: il 2022 è un anno da incorniciare

Ed eccomi qui, di nuovo, un anno dopo, a scrivere il solito bilancio di ottobre, quello in corrispondenza di un compleanno importantissimo, il compleanno di queste pagine, di questa rubrica, che ha visto decine di libri, che ha raccolto decine di riflessioni, che ha sentito tutte le mie emozioni, che ha contemplato la mia vita passare, le cose cambiare, il corso degli eventi mutare, contenendo i cambiamenti, i dubbi, le felicità, i piccoli istanti di gioia, i dolci secondi di tristezza, ha conosciuto la rabbia, la sfiducia, ha visto il buio e ha riconosciuto la luce, quando si è ripresentata. Libri senza pregiudizi compie sette anni e anche io ho un anno in più, non solo un anno in più dell’età anagrafica, ma anche un anno in più di vita, un anno in più di eventi, un anno in più di scoperte, un anno in più di inciampi, un anno in più di salti nel vuoto, con le gambe tese, un anno di frenate, come sbattere la testa contro il vetro e scoprire che poi anche oltre il vetro si può andare, si possono infrangere le difese, si può andare oltre i propri stessi limiti, i limiti che a volte il corpo ci impone per proteggerci, ma finisce solo per farci male e farci tagliare con i vetri del vetro, che, tuttavia, è necessario rompere per essere più liberi e per ritrovarsi forse in un luogo meno sicuro, ma nel luogo più vero, più libero, in cui poter curare ogni ferita, raccogliere ogni coccio, fuori dalla confort zone, ma dentro alla vita, per la strada impervia della roccia che si stagliava davanti a me,una roccia che era necessario scalare e, quando poi sono arrivata alla vetta, ho sentito di essere libera, non di cadere nel vuoto, ma di livrarmi nel vuoto, di danzare con le mie paure, di accettare i miei pensieri e di imparare a convivere con i miei mostri, non sconfiggendoli di faccia, perché sono più forti di me, ma imparando ad aggirarli e a metterli da parte, sullo sfondo, a schiacciarli in qualche recesso della mente, dove non possano nuocermi e dove non possa vivere in funzione loro, ma sono loro che hanno cominciato ad abbassare la testa e a vivere in funzione mia e io ho ricominciato a vivere, respirando a pieni polmoni, ricominciando a stringere mani, la sua mano nelle mie, la mano di Ermal, che mi ha ripagata di ogni attesa, di ogni dolore, di ogni inciampo,di ogni caduta, che ha riportato di nuovo la luce e mi ha resa capace di nuovo di fare l’impossibile: mi aveva già salvato l’anima, riprendendola dal burrone della sfiducia, ora l’a tirata fuori dalla coltre della paura e del dolore. Insieme, io, lui, la sua musica, la mia forza e la forza che lui mi dà, quando parla, quando scrive, quando canta. È stato un anno incredibile, questo, uno di quelli difficili da lasciar andare, uno di quelli che sarà difficile salutare, uno di quegli anni che ti fa abituare alle sue cifre, un sacco di due e un solo zero, che mi ha fatto patire, soffrire, piangere, urlare, per la rabbia, e avere voglia solo di picchiare i pugni contro il muro, ma che è stato più luminoso che buio e, anche se ha avuto il buio, e ce l’ha avuto, ho scoperto che la luce non è solo in fondo al tunnel, ma la luce è nel tunnel stesso, vibra alle pareti e illumina i passi sul pavimento e soprattutto piomba dall’alto. Che qualsiasi buio trabocca di luce, che qualsiasi dolore trabocca della cura, che qualsiasi tristezza alla fine ha anche insita e incastrata tra le sue pieghe la felicità, che tutto serve e che a un certo punto bisogna saper rompere il proprio guscio protettivo, con il rischio anche di rompere i vetri e schiantarseli in faccia, ma bisogna andare, bisogna fare, bisogna uscire e bisogna accettare le mani tese, ma soprattutto, nel groviglio, bisogna saper scegliere le mani e dire, molto semplicemente, di nuovo: “Ho bisogno di aiuto”. Forse quest’anno può essere riassunto in questa frase. O quest’anno può essere tutto contenuto nella parola “libro”: libri che ho letto, libri che ho scritto, iniziato e concluso, due romanzi in un anno (in realtà, tre, anche se il terzo libro è… Se ve lo dico, ve l’ho detto), un miracolo a cui farei fatica a credere se non li avessi visti nascere, non li avessi accarezzati, non li avessi accuditi e non li avessi visti diventare grandi, libro pubblicato, il secondo, presentato in tanti luoghi meravigliosi, con le presentazioni che si susseguono, con le mani che si stringono, con gli abbracci che si rinnovano, con le foto che mi riempiono gli occhi non di immagini, ma di lacrime. Quest’anno può essere di nuovo nel suo nome, nel vento di montagna che sa essere sempre, accarezzando le mie imperfezioni, smussando i miei spigoli, curando i miei dolori: Ermal, il suo libro stupendo che rileggerei altre tremila volte, la presentazione, un incontro che mi fa tremare le mani e vibrare l’anima, e due concerti, che galleggiano nell’aria e si fondono con il nostro respiro all’unisono. Oppure può essere contenuto anche nella parola dolore, che c’è stato anche quello, che ha visto anche quello, oppure può accompagnarsi alla parola felicità, può vibrare con la parola emozione, può tremare con la parola paura, può di nuovo essere, ma con un pizzico in meno di terrore, nella parola Covid, può essere delusione, può essere speranza, può essere la vibrante speranza di chi si sente sull’orlo del precipizio, però ci crede ancora e ci spera di nuovo, oppure di chi guarda il mondo e scopre quanto è devastante la certezza che la storia è servita a poco e che continua a ripetersi e a ripresentarsi, nello stesso modo, accompagnandosi all’impotenza e scoprendo che non abbiamo altro, che non ho altro, se non quello che ho e quello che sono. Un anno di conferme, di scoperte, un anno di tremolii incerti, un anno di passi tremanti, un anno in cui a un certo punto davvero i passi si sono fermati e mi sono schiantata contro il muro, ma è un anno che come la metti la metti bene e, mentre contiene un blocco e un crollo, contiene la soluzione, spiegare le ali e capire che l’unico modo per uscire dal tunnel era attraversarlo, sentirlo fino in fondo, viverlo fino all’antro più buio, sfidarlo con le armi, con la sola arma possibile, quella della conoscenza e scoprire che non c’è bisogno di combattere, ma il dolore, la paura, l’ansia, la rabbia, anche quando diventano ingestibili, possono essere accettati, accolti, conosciuti, può essere tolta loro la maschera e solo così, guardandoli in faccia,conoscendoli, ascoltandoli e poi ignorandoli, possono essere affrontati. Che anche i nemici più potenti possono essere sconfitti con la forza di volontà e appoggiandoci là dove ci appoggiamo sempre per non cadere, sulle certezze, sulla scrittura, su Ermal, su qualsiasi cosa che voglio scoprire e sui libri letti, scritti, pubblicati, per credere nei sogni e scoprire che non ci sono avversari impossibili da sconfiggere, che niente è impossibile. Forse è questo, quest’anno. Un anno possibile nell’impossibile. Un anno totale, nella sua completezza. Un anno che non può essere riassunto, che non può avere titoli, che non può avere una sola parola, perché ques’tanno è stato tutto questo ed è stato molto di più, perché ques’tanno è come la vita, si nutre delle sue stesse contraddizioni e, proprio attraverso le sue contraddizioni, esplica tutta la sua bellezza, e, anche se è un ossimoro, può davvero essere raccontato ed essere ricordato, solo davvero in queste pagine, gli occhi commossi e le mani emozionate, per poter dire che, se ques’tanno si puòd ire in qualche modo, si può dire che è un anno da incorniciare, uno di quelli che non vorresti mai lasciar andare e che appenderesti al muro, come una foto, con la cornice più bella che si riesce a trovare in qualche polveroso cassetto, merita di essere trovata, la cornice dorata, pulita,spolverata e messa intorno a un anno che è stato di tutto, un quadro chiaroscuro, ma, nonostante lo scuro e il buio, predominano il sole, la luce e i colori chiari, è stato un anno che ha contemplato tutti i sentimenti possibili, ma sono i colori più limpidi e il cielo più infinito che alla fine hanno la meglio e occupano la maggioranza del posto e, forse, non potrebbero brillare così tanto se non fossero accanto alle tenebre e se non fossero fusi insieme al buio. Quest’anno è speciale, uno di quelli che aspettavamo, che sognavamo, che non credevamo possibile quando tutto sembrava difficile e impossibile. Sapevo già che sarebbe stato l’anno della speranza, l’anno di una ripartenza definitiva e totale, l’anno dei concerti, là, a un passo, e l’anno del mio secondo libro pubblicato. L’anno scorso si è avviato alla conclusione con un pizzico di nostalgia, era un anno che ci ha visti ripartire, che ha cominciato a farci sognare, ma c’era ancora un ostacolo importante nelle nostre vite e il Covid dava ancora fastidio, magari non faceva paura come prima, ma era entrato dentro le nostre vite fino a influenzarci, fino a piegarci al suo volere e fino a farci fare gesti che, se ci pensi, non hanno proprio nessun senso, eppure avevano acquistato senso le cose senza senso e tutto il resto, persino l’agognata normalità, sembrava una cosa troppo grande per essere vissuta, un salto troppo grosso, desiderato, anelato, inseguito e voluto, ma spaventoso, perché è là fuori e bisogna uscire. Tuttavia, non avevo dubbi che l’avrei fatto e l’avrei fatto oltre i miei stessi limiti, le mie stesse paure, la mia stessa ansia, l’avrei fatto perché i concerti di Ermal erano vicini e perché ero pronta a tutto, pur di andare ai concerti, anche a prendermi il Covid, anche a ignorare tutto il resto, anche a essere pronta a camminare piano piano, a ricominciare a uscire e ad aspettare per fare la terza dose, in modo che fossi maggiormente coperta per i concerti. Era difficile, ma mi sembrava possibile, possibile perché amo Ermal e la sua musica. E l’anno scorso si è concluso così, ringraziandolo per ciò che mi ha dato e per le speranze che ha ricominciato a far sorgere con l’assoluta certezza che quest’anno, il 2022, sarebbe stato sicuramente migliore dei precedenti e che sarebbe stato quello che, inqualche modo, ci avrebbe fatto definitivamente ripartire, non con una parvenza di normalità, ma facendoci trovare nella totale normalità. Non so poi cos’è che pensavo e che pensavamo nel 2021, è difficile ora ragionare in un altro modo e si può pensare a certe cose, solo ricordandole, con un certo distacco, come appartenenti al passato, quando ci chiedevamo se mai saremmo tornati alla normalità, quando pensavamo che niente sarebbe tornato più come prima, talmente ci sembrava irreale. Sicuramente, le ferite restano e i ricordi vanno coltivati, perché una persona, come una nazione, senza memoria non può avere futuro, ma le cose possono davvero tornare come prima, esattamente come prima, e forse anche più normali di prima e ancora più intense, questo, sì, questo può essere cambiato: che amiamo di più la normalità, ma che, per quanto l’amiamo e la desideriamo, all’inizio fa paura e tornare alla normalità può essere più devastante che rimanere nel buio e nel guscio sicuro. Ma io, l’anno scorso, non avevo dubbi che i concerti si sarebbero fatti e marzo-aprile erano vicinissimi, la felicità era vicinissima e io non avevo più paura di niente e, se avevo paura, era più forte il desiderio di riascoltare Ermal dal vivo, avevo bisogno di cantare a squarciagola, mi stavo già preparando a ripassare i testi, sentendoli già vibrare e sentendo già l’aria tremare in modo diverso, nell’attesa. E, nell’attesa, concludevo il corso di editoria che avevo iniziato l’anno scorso piena di energie e di aspettative, con la fermissima convinzione che sarebbe servito a qualcosa e con la certezza che, alla fine, è servito a molto poco, se non a rafforzarmi nella mia idea e a capire bene qual è la misura delle cose: non potrò mai fare parte di una casa editrice, dall’altra parte. Non potrò mai essere editor, correttrice di bozze, editrice, o figure professionali del tipo. Io sarò sempre da quest’altra parte del fiume e sarò sempre solo la scrittrice, quindi colei che pubblica libri, non colei che corregge i libri altrui o si mette a ragionare come un editore. In fondo lo sapevo, ma il corso mi ha convinta ancora di più e anche l’antipatia che ho provato quasi subito nei confronti del responsabile commerciale, io sono sincera fino in fondo, e vi dico senza timore che mi ha dato fastidio il suo atteggiamento nei confronti degli scrittori, come se noi fossimo quelli che danno fastidio, quelli rompiscatole, quelli a cui piace parlare male delle case editrici a prescindere e che vogliono comandare dove non hanno competenze, non conoscendo per nulla la mia esperienza e neanche tutta la mia buona disposizione nei confronti delle figure professionali: ognuno fa il suo lavoro e io rispetto l’editor, come il grafico che cura impaginazione e copertina, fare copertine non mi compete e fare l’editing neppure, però quello che scrivo io è roba mia e lo difendo strenuamente come difenderei una mano o un braccio. Voi vi lascereste tagliare una mano o spostare di posto a un dito? No, benissimo, neppure io lascerei toccare quello che scrivo con leggerezza e, se devo diventare antipatica, ci divento. Ma sentir dire che gli scrittori a prescindere parlano male delle case editrici, quando io ho sempre e solo cercato comprensione e dialogo, mi ci rode e mi ci rode del brutto e io sono fatta così, intransigente, e quando prendo una piega è quella e non c’è niente da fare. Perciò, avevo preso il responsabile commerciale per il verso sbagliato e ho trascinato il corso con una noia mortale, alla fine, e sono andata progressivamente perdendo l’entusiasmo che mi aveva animata nella parte iniziale. L’ho terminato per una questione di correttezza e di testardaggine, ma l’avrei volentieri abbandonato, e poi tocca dire che se ne è andato così, senza lasciare molte tracce, se non una, che, a ripensarci, facevo meglio a non seguire, ma è andata così. Ed evidentemente doveva andare così. Sono una razionale, ma un po’ fatalista lo sono e penso che niente accade per caso, neppure ciò che mi dà fastidio, ciò che mi fa incazzare e ciò che mi sembra completamente senza senso, eppure tutto serve. E, per arrivare alla meta, si passa anche per le strettoie e per i vicoli. Certe lezioni erano più entusiasmanti, va detto, ma poi mi ha scoraggiata molto l’indifferenza ricevuta dall’altra parte: ho fatto i compiti per bene, con il desiderio di capire realmente le cose e con la speranza che venissero corretti, in modo da poter appunto comprendere, che era il motivo per cui facevo il corso. Tuttavia, non ho mai ricevuto alcuna risposta e questo mi ha fatto perdere anche il poco entusiasmo che avevo. Alla fine, il mio ipotetico modello di casa editrice mi ha anche soddisfatta e ho pensato che sarebbe bello renderlo possibile, non sarebbe niente male come progetto, chiamarla Oltre come il mio blog e concentrarmi proprio su libri che vanno oltre i confini, che sono ponti tra culture e che, in qualche modo, istituiscono dialoghi tra le persone, come tra le nazioni e le culture, una sorta di enorme Libri senza pregiudizi, niente male come idea ed è piaciuta anche a quell’antipatico, il che una certa soddisfazione poi me l’ha data sentirmi dire brava, progetto ben strutturato, ma è finita lì. Sono uscita poco dopo, con la scusa che dovevo andare, e il corso è finito così. Non resta che l’attestato di frequenza e un buon bagaglio di esperienza: almeno conosco la misura delle cose e mi sono anche divertita, mi sono anche incazzata, ho provato un po’ di tutto, forse, tornando indietro, non lo rifarei, ma è andata così e di solito non mi pento di nessuna esperienza fatta, tutto serve e anche questa è servita e nell’esposizione del mio progetto di un’ipotetica casa editrice, sì, via lo dico, in effetti, mi sono anche divertita, poi è finita lì. Cioè, insomma, non proprio lì: ho avuto la fantastica idea di seguire un consiglio datoci al corso che, come accennavo, se lo potevano anche tenere e io potevo anche evitare di ascoltarlo, ma mi hanno fatto una testa così,ovviamente non è colpa loro, ma è mia. Ho voluto provarci e ci ho voluto credere. Ho inviato così la sinossi del mio secondo libro a un’agenzia letteraria, che dovrebbe fare da intermediario tra gli autori e le case editrici e mi è piaciuta questa idea, l’idea che ci fossero agenzie anche per gli autori emergenti. Dall’agenzia consigliataci al corso non ho avuto risposta, ma sulla stessa linea, ho scelto un’agenzia, Redazione domani, o forse è lei che ha scelto me, perché continuava ad apparirmi l’inserzione su Facebook e io mi sono detta: ma provaci, va, che hai da perdere? Niente, solo da guadagnare. Avevo completato la revisione del mio secondo romanzo, con una fatica da mezzo esaurimento delle forze, si intitolava “Il soldato che amava l’alba” ed era pronto a spiccare il volo, si trattava solo appunto di darmi una decisa sulla casa editrice; dopo tremila informazioni e quattromila messaggi inviati, alla fine, ho fatto la cosa più stupida che potessi fare, ma che,in quel momento, mi sembrava la più sensata: inviare la sinossi, poi un estratto all’agenzia letteraria Redazione domani, e così mi è stata approvata la sinossi, poi l’estratto e infine mi hanno messo in contatto con una casa editrice, editrice ZONA di Genova, buon contratto, anche di una durata più lunga, cinque anni, niente male come inizio, anche il contributo in denaro era basso e accessibile, così mi sono detta che ero il ritratto della felicità e in effetti lo ero. E la cosa si è confermata anche nella prima bozza, ho dovuto rileggere il libro e ricorreggerlo, ma ero piena di buone intenzioni, i consigli erano ottimi e pertinenti, e il solo consiglio fastidioso l’ho ignorato e ne ho spiegato i motivi, l’editor di turno ha capito ed è finita lì, piuttosto bene, e questo mentre finiva il 2021 e iniziava il 2022, e io ero piena di felicità, per i concerti imminenti e per la pubblicazione del mio libro molto vicina. La felicità era a portata di mano, ma non tutte le cose vanno come vorremmo e non tutto è semplice come ci aspettiamo. Ho dimenticato l’ordine delle cose e confondo gli eventi di febbraio con quelli di marzo, però a me pare tutto là, come se tutte le cose fastidiose e negative dell’anno si concentrassero tutte lì, ed è un peccato, ma febbraio continua comunque a essere il mio mese preferito,quello del mio compleanno, vero, un compleanno ancora con poche persone, però mi sembrava veramente il problema più piccolo e ho imparato a divertirmi comunque. La questione è che sulle mie spalle pesavano diverse cose e si sono abbattute tutte insieme, che non mi ricordo più l’ordine. Ma penso che prima sia la seconda bozza del libro. Avevo già i nervi a fior di pelle, perché, quando si pubblica, si hanno i nervi tesi, è normale, ma poi quando ti arrivano gli editor con consigli non pertinenti, gli stessi identici, già spiegati, allora, sì, che non ci siamo. Però, non è stato neppure quello il problema. L’obiezione mossa è stata sui nomi, secondo l’editor quelli stranieri, non italiani, toglievano qualcosa, credibilità al racconto. Secondo me,invece, la credibilità la toglieva solo lei. Ora io l’ho sempre detto e ripetuto: sotto scrittura non posso mentire e non posso celare niente, non posso raccontare quest’anno, senza passare per qui. Non è che a me entusiasma l’idea di passare di qui, ma non posso raccontare ciò che è venuto dopo, senza parlarvi di ciò che è venuto prima. Quindi, l’editor, lasciatemelo dire, non c’ha capito niente: tanto per cominciare l’Italia come nazione non esisteva ancora nel 1823, è una questione storica, quindi già la definizione di nomi italiani lasciava un po’ a desiderare, poi ripeto per le’nnesima volta (e mo vi sarete anche stufati di sentirlo) che la mia storia è ambientata in un regno inventato e, quando il regno è inventato, hai maggiore spazio per la licenza poetica e non hai i vincoli necessari, invece, per un romanzo prettamente storico. “Il soldato che amava l’alba” è tra la realtà e la fantasia, voleva essere un romanzo storico, ma anche un romanzo storico-ucronico (ucronico significa che ipotizza vicende storiche che sono andate in modo diverso dalla realtà e sono inventate dagli autori) e insieme una favola senza tempo,che subisce il fascino di corti lontane, in questo caso collocate geograficamente in una città reale, ma in un regno inventato (in quell’epoca a Fano c’era lo Stato della Chiesa nella realtà), il che lascia un pizzico in più alla fantasia, pur inserendosi certo in un contesto verosimile e ottocentesco per le invenzioni presenti. Per me il racconto non perde di credibilità, ma esprime, anche attraverso i nomi,la sua doppia natura di romanzo e di fiaba. E poi c’è quella parte della spiegazione che può comprenderla solo chi scrive: cambiare il nome a un personaggio è come cambiargli la vita e il destino e la vita e il destino non si possono cambiare una volta scritti, può cambiare un dettaglio, ma non le’ssenza e l’essenza sta appunto nel nome. È una scelta istintiva quella del nome, ma in qualche modo studiata inconsapevolmente dalla mia ispirazione e dai miei stessi personaggi, che raccontano le loro vite attraverso di me. Sono loro che si chiamano così e io li ho conosciuti già con il loro nome, cambiarlo sarebbe come rifiutarli o come non ascoltarli. Quindi, capirete come io ho reagito, con questi presupposti, all’ennesimo consiglio, ma sarebbe potuta finire lì. Oh, la pensiamo in modo diverso, , fine, ci sta. Era già successo nella prima bozza, ci eravamo spiegati ed era finita lì. Qui, invece, pur sapendo benissimo, la signora editor, che avrebbe fatto come dicevo io, perché il libro di un autore non si tocca senza il suo permesso, ha voluto metterci del suo, rimproverarmi e dirmi che gli scrittori giovani sono quelli più restii ad abbandonare le loro idee controproducenti e altre cose poco gentili, tra cui il fatto che non devo pensare alla magia della mia mente. Mi dispiace, ma se non penso alla magia della mia testa, non esisteva nessun libro, non solo il mio, proprio quello di nessuno. E poi non erano solo le parole, ma l’atteggiamento di sufficienza e di superiorità che ha usato e io ho ripensato alle simpatiche parole di quell’antipatico lì e mi sa che è proprio il contrario: che gli editori devono per forza parlare male degli scrittori e con gli scrittori, quasi dovessero avere su di loro una specie di rivalsa. Io non l’ho mai mandata a quel paese, però quanto avrei voluto! E, se fossi stata un tantino più incosciente, avrei strappato il contratto e avrei ricominciato tutto da capo. Tuttavia, ho fatto un enorme sforzo su me stessa e sul mio orgoglio, ho trattenuto la rabbia e mi sono detta “gli altri consigli sono pertinenti, segui quelli e fregatene delle sue parole”. L’ho fatto, ma ho fatto una fatica che solo l’amore ha reso possibile, solo il sogno di veder pubblicato il mio libro, però era una fatica a ogni riga ed era uno sforzo su me stessa a ogni correzione. Alla fine, con i nervi a fior di pelle, è andata, non si sa tipo le volte in cui ho dovuto farle di nuovo notare che si perdeva le correzioni, non so quante volte ho corretto e ricorretto e quanto ci ho messo a dare ‘sto benedetto assenso alla stampa, era marzo inoltrato e nel frattempo altre tempeste si erano abbattute su di me, tra cui, non da ultimo, il computer fisso che ha deciso di rompersi il giorno del mio commpleanno e ho dovuto ricomprarlo e non è stato il solo acquisto elettronico di ques’tanno. Mi si è rotto anche quello portatile, che dopo mesi si è pure ripreso tra l’altro,e quindi ho comprato anche un nuovo computer portatile e poi il telefono pure, addio all’Iphone7, sinceramente, sbattuto contro il tavolo dalla rabbia che avevo, e mi sono comprata l’Iphone8 che per fortuna è molto simile. Poi altre due cose sono arrivate nella mia vita, cominciamo da quella più universale, che ha colpito molti e a me ha lasciato un dolore immenso e un’impotenza fastidiosa, da camminare a fatica con quel peso, ma poi ho imparato a conviverci, a cercare di farmi forza e a fare la sola cosa che so fare, per reagire: scrivere; scrivere poesie, scrivere un romanzo per avere di nuovo la speranza e per gridare ancora pace e libertà, anche in mezzo alla guerra e in mezzo all’oppressione, di fronte all’indifferenza del mondo che pensa solo alla sua sicurezza, ma mai davvero al dolore di chi soffre. E parlo della guerra in Ucraina. L’invasione russa ci ha colti impreparati, per quanto potesse essere nella’ria. Siamo rimasti tutti attoniti, con l’incredulità di constatare che, dopo tanti anni, c’era di nuovo la guerra in Europa. Così il 24 febbraio il mondo si è svegliato con la notizia che la Russia di Putin ha invaso l’Ucraina ed è iniziata la guerra, una guerra molto vicina,che mi ha fatto sentire impotente. E non mi ha lasciato dubbi su con chi schierarmi: con il popolo ucraino, chi invade sbaglia sempre e a prescindere ed è diventata una costante per me sostenere un popolo che resiste per la propria libertà e combatte per la propria terra. E mi ha commossa moltissimo la vittoria dell’Ucraina all’Eurovision. Ma c’è anche un’altra cosa fondamentale che mi ha influenzata e che mi ha fatto commuovere dai primi mesi ed ora è diventato un tutt’uno, è diventato il mio scopo, insieme al sostegno della causa ucraina, e non è in contrasto, anzi. Ho imparato ad amare il popolo russo, proprio là dove il mondo puntava contro quel popolo il dito accusatore. Ma il popolo non è colpevole delle decisioni di un ristretto numero di persone. Il popolo russo, anzi, non solo non è colpevole, ma è un’altra vittima del conflitto, sono vittime coloro che sono stati mandati a uccidere e a morire, sono vittime le persone che hanno voluto protestare contro la guerra e sono state arrestate, il popolo russo ha alzato la testa, scendendo in piazza e affrontando questi mesi durissimi con coraggio e con onore. E i russi hanno tutto il diritto e, anzi, il dovere di alzare la testa, perché sono un popolo meraviglioso, che merita di esplicarsi in tutta la sua grandezza e in tutta la sua bellezza, che merita di essere conosciuto e di innalzarsi al di sopra di chi vuole schiacciarlo, e a schiacciare questo popolo non è solo il presidente che prende decisioni non gradite neppure a loro, ma anche il resto del mondo, che sembra dover disumanizzare un popolo per innalzarne un altro. No, non serve a nulla demonizzare un popolo straordinario, per innalzare la lotta di un altro. Sono due popoli straordinari e nessuno dei due vorrebbe la guerra, vorrebbero solo abbracciarsi nella pace e nell’umanità e abbiamo visto tanti gesti importanti di solidarietà e di vicinanza da una parte e dall’altra. E, in una delle mie storie inventate in quest’anno incredibile, ho voluto trasmettere proprio questo: parlare del popolo ucraino e delle loro istanze di libertà e pace, ma senza dimenticare la grandezza, la bellezza e il grido di pace del popolo russo che, penso di poterlo dire senza ombra di dubbio, ha la letteratura più bella del mondo. E la mia amica Barbara me lo dice da tanto tempo che devo leggere la letteratura russa, che chi scrive deve leggere i classici russi, l’avessi fatto prima, la mia scrittura sarebbe ancora migliore. Lessi “Le notti bianche” e “Delitto e castigo” di Dostoevskij, ma non ero stata capace di continuare, pur volendo assolutamente leggere prima o poi “Guerra e pace” di Tolstoj, soprattutto dopo aver visto la serie TV su Canale 5. È arrivato il momento. E ciò che è accaduto in questi mesi è davvero significativo, che sia proprio iniziata dalla mia rabbia e dal mio fastidio provati quando un’università di Milano, dopo l’inizio della guerra in Ucraina, ha annullato un corso su Dostoevskij perché lo riteneva divisivo. Io senza parole e là ho capito che il popolo russo rischiava di essere una vittima collaterale e rischiava di rimetterci anche la letteratura più bella del mondo, perciò mi sono detta che dovevo fare qualcosa nel mio piccolo, così ho scritto una poesia per riavere fiducia nell’umanità, ho iniziato a scrivere una nuova storia, che non so se porterò mai a termine, ma è importante per me che ci sia e mi sono data una decisa. Finalmente ho letto “Guerra e pace”, tra agosto e settembre e per fortuna l’ho fatto. Mi sono innamorata di un personaggio letterario come mai prima, Pierre mi è entrato nell’anima e non se ne è andato più. Non ho mai provato niente di simile per un altro personaggio e per nessun altro personaggio il desiderio di poterci parlare e sarebbe bello se io potessi incontrarlo, per scambiarci idee e impressioni. E a completare il quadro meraviglioso è arrivato un corso straordinario, di cui non direi mai abbastanza: quello sui classici russi, capitato proprio a proposito, e ho conosciuto l’insegnante più straordinaria e appassionata e appassionante della mia vita, Margarita Smirnova. Di lezioni ne ho viste e ascoltate nella mia vita, ma mai nessuna mi aveva preparata al bagno di umanità, di bellezza, di amore che si fa ogni sabato sera a letteratura russa, un mese incredibile e non voglio pensare che il corso finirà il 5 novembre, non vedo già l’ora che ci sia la nuova sessione di lezioni e penso di non poter più vivere senza queste lezioni, sentire il suo immenso amore per la cultura,per la bellezza e per la Russia. Il mondo meritava di conoscere la Russia per quella che è e,se c’è un modo per conoscerla, è leggere i classici: Tolstoj, Dostoevskij, Cechov, Pushkin, Gogol, Bunin, Solzenicyn e tutti gli altri. Il mondo merita di conoscere questa letteratura straordinaria e io l’ho scoperta e l’ho trovata finalmente, nel momento più giusto. È stato proprio bello respirare umanità e sentire come ci sia stima reciproca e lo stesso amore per la cultura e per la letteratura. E io ho amato alla follia Bunin, un autore poco conosciuto, quello che io ho chiamato doloroso piacere o qui anche chiaroscuro, con le sue storie che finiscono sempre in un certo modo, mentre si saldano inestricabilmente l’amore e la morte, in un abbraccio ossimorico, che mi ha assolutamente fatta innamorare di ogni sua pagina. E penso che è un vero peccato che sia stato poco tradotto e io sono il ritratto della disperazione nel sapere che ho letto tutto ciò che sono riuscita a trovare. Leggetelo, Bunin, perché è un bagno di emozione. E vi prego, se volete farvi un regalo,iscrivetevi al corso di Margarita Smirnova: sarà come sentirvi a casa in mezzo alle steppe, ai boschi, ai campi, alle città e capirete di amare la cultura, la letteratura, la Russia. E che questo è il solo modo in cui il mondo ce la farà di nuovo, davanti a tutte le guerre: con la bellezza, che, aveva ragione Dostoevskij, salverà il mondo. Il mio lo ha già salvato. E poi, la cosa più difficile da raccontare, accennata per tutto questo articolo, che sembra essere in sordina, che tremola in ogni riga e che non ho mai dimenticato neppure in questa esaltazione della bellezza e passa, proprio, di nuovo, per la bellezza. A parte il fatto che quest’anno ho letto quaranta libri e l’anno non è finito, ho letto di tutto, classici, letteratura erotica,romanzi rosa, avventura, fantasy, romanzi storici, Elif Shafak e il suo straordinario “I miei ultimi 10 minuti e 38 secondi in questo strano mondo”, lo stupendo “La tua bellezza” di Sahar Mustafah, devo dire e aggiungere e sottolineare che ho letto il libro più bello, quello che è diventato il mio preferito: “Domani e per sempre” di Ermal meta, e non solo perché lo ha scritto Ermal, ma perché è un romanzo storico, una storia straordinaria di musica, di dolore, di speranza, di amicizia, di amore, che va letto e vissuto in ogni pagina più di una volta per poter capire di non poter mai rinunciare a questo viaggio e ai viaggi che i libri mi fanno fare, dove c’è spazio di ridere, piangere, sperare, soffrire e innamorarsi. Avete ragione, sì. Sto cercando di divagare. Non è un tentativo di fuga, però, è solo il desiderio di dire tutto, prima di dire il resto: febbraio. Non voglio ricordare il giorno, era intorno al 20, però. È arrivata una mazzata pazzesca, la peggiore in assoluto, talmente profonda da insinuarsi là e da fare molto fatica ad andarsene: Ermal si è preso il Covid e questo già ci aveva fatto preoccupare, ma poi purtroppo ci ha anche comunicato che non ha potuto fare le prove, appunto per via del Covid, e quindi il tour che doveva partire il 28 febbraio doveva essere per forza di cose rimandato al prossimo anno, sicuramente quest’estate ci sarà qualcosa, ha detto, ma in quel momento, per me c’era solo il vuoto. E il dolore di Ermal per questa comunicazione è stato atroce, come sentirlo sotto pelle e sentirlo intrecciarsi con il mio. Ho pianto più di quanto avessi mai fatto, ma le lacrime non sono bastate. E il dolore si è insinuato molto a fondo, fino ad avere quello che per forza di cose io chiamo crollo. Mi è crollato il mondo addosso e ho avuto un blocco insormontabile. MI ha trascinata via con sé la notizia, senza essere capace di restare in piedi e senza essere capace di andare avanti. Ne avevo abbastanza di questa situazione del Covid e sentivo che i concerti erano il modo per uscirne, per uscire da tutta quella prigione della paura e delle piccole fissazioni che sono diventate enormi motivi d’ansia, dopo i concerti rimandati, di più. Non ce la faccio, mi sono detta, non ce la faccio da sola. Ed è stato un precipitare verso il basso, un cadere a fondo, e a tenermi in piedi, in quei giorni, erano sempre la mia scrittura e la creatività che non mi ha lasciata, anzi, ho portato a termine un libro in dieci giorni e pensavo che non succedesse più, ma non vi anticipo niente e,qualche mese dopo, un altro, che è stato talmente inaspettato e che potrò dirvelo soltanto tra qualche mese, resistete un altro po’, e un altro che non è un romanzo, poi vi dirò. Due romanzi iniziati e conclusi (tre contando quello che non è proprio un romanzo) e un altro iniziato in un anno, non posso rimproverare niente a questo 2022, neppure il mio crollo e il mio blocco totale: non riuscivo a uscire, non mi vergogno di dirlo, e anche il solo fatto di mettere piede fuori dal cancello era diventato un enorme e inaffrontabile motivo d’ansia. L’ansia era ingestibile e con lei la rabbia, il fastidio, la tristezza. Mi sono detta “fermati, perché non puoi andare avanti”. Ho sbattuto con tutta la potenza della mia corsa, contro il vetro, senza riuscire a sfondarlo e a uscire fuori. L’ho ripetuto per mesi, poi, alla fine, nonostante l’ansia che mi divorava le energie, ho detto “va’ altrimenti qui non ne vieni fuori”. Ho cominciato ad avere paura di non riuscire neppure ad andare ai concerti di Ermal. Volevo credere che ce l’avrei fatta e che la spinta mi sarebbe servita come qualche mese prima,ora che c’erano date reali, ma mi sembrava tutto troppo difficile e continuavo a non volerci credere, come forma didifesa, credo. Ero entrata in un vicolo cieco, mi sono aggrappata alla scrittura e alla musica e alle parole di Ermal e mi sono detta che meritavamo qualcosa di meglio e che io meritavo di uscire da questa situazione. E non mi vergogno di dire ciò che sto per scrivere e ritiro tutto quello che io stessa, razionale e testarda, ho sempre detto e spero che questo monito a me stessa sia utile anche a voi: quando non ce la fate, non insistete a volercela fare da soli, ma chiedete aiuto. Non solo alla famiglia o agli amici, non solo a voi stessi o a ciò che conoscete, ma anche a chi lo fa per lavoro, a uno psicologo. Lo dico e lo sottoscrivo. Non ho il potere di innalzare nessuno o di fare monumenti a nessuno, ma nella mia vita di quest’anno, oltre a tutti i libri e ai personaggi e agli autori e alle persone straordinarie a cui devo dire grazie, devo dire grazie anche a te, Alessio. Continuo a chiamarti per cognome, quando dico che devo venire da te, e così sei memorizzato sul cellulare, un po’ per abitudine, un po’ perché ti ci chiama anche mamma, ma oggi, qui, in queste pagine di bilancio, voglio chiamarti per nome e voglio dirti “grazie, Alessio, per il percorso che abbiamo fatto e stiamo facendo insieme”. Sei stato la mano tesa, quando non sapevo dove sbattere la testa e mi hai aiutato a trovare in me gli strumenti per abbattere quel vetro e uscire là fuori. Ci ho messo tanto del mio, concedimelo, e lo so che me lo concederai, Ermal ci ha messo del suo e pure la natura ci si è messa abbattendo i miei ultimi timori, nel modo più simpatico e beffardo in cui potesse farlo, facendomi prendere il Covid e mi ci viene tanto da ridere, ma pure tu ci hai messo del tuo e lo riconosco. Ho iniziato un percorso piena di pregiudizi e di timori, ci sono stati momenti in cui in efetti avrei voluto mandarti a quel paese o mandare a quel paese solo me stessa e tutte le mie stupidissime fisse. Cioè era diventato per me un ostacolo impossibile aprire una maniglia o toccare la chiave del cancello. Assurdo, ma distruttivo. Mi hai insegnato a riconoscere i pensieri e a trattarli come tali, non a combatterli, come avevo sempre cercato di fare, sbagliando, ma dando loro il peso che hanno: sono pensieri e i pensieri, anche se sembrano mostri, non sono veramente mostri, non ci divoreranno ed è solo il peso che noi diamo loro che può schiacciarci. Quindi, ho imparato a metterli in secondo piano, ad aprire le maniglie e a non lavarmi le mani. HO tribbolato come solo io lo so, ma ho insistito, perché sono tignosa come pochi e ne sono venuta fuori, piano piano, ho fatto le presentazioni del mio secondo libro, avevo la mascherina, poi piano piano ho cominciato a toglierla a volte e il mio mondo è esploso di luce. Ermal mi ha dato una mano incredibile, in questo percorso di ascesa e mi ha portata a vette che io da sola avrei raggiunto chissà quando. Stringergli la mano, regalargli i miei libri, ascoltarlo parlare, sentire il mio nome nelle sue labbra, cantare a squarciagola , riabbracciare le mie amiche, ritrovarci insieme davanti al palco. Emozioni indelebili, incancellabili, indimenticabili, difficili anche da descrivere, impossibili da contenere. Ci ho messo tutti gli articoli di Emozioni da lupi e ci metto anche qui un grazie enorme come l’universo: grazie, Ermal, perché mi ai sbloccata, grazie, Ermal, perché pensavo di non farcela, ma, se ce l’ho fatta, l’ho fatto grazie a te, a me e anche grazie ad Alessio. Lo abbiamo fatto insieme. E il mondo ha cominciato a esplodere di felicità, ho scritto il secondo libro dell’anno a cui accennavo prima, che è stato un regalo incredibile, ho conosciuto autori e autrici speciali e ho trovato due amiche alle quali voglio dire grazie, grazie di avermi fatto conoscere il vostro mondo attraverso i vostri libri, che per me è stato un onore leggere, amare e recensire. Grazie Alessandra D’egidio per la tua Mei, per il tuo “La vita che mi ha scelto” e te l’ho detto grazie anche perché mi hai fatta innamorare del nome Andrea. E poi grazie a te, patrizia, grazie del tuo bellissimo “Per Alisia” e grazie per le persone meravigliose che mi hai fatto conoscere nelle tue pagine, tu e tua figlia, è stato bellissimo ritrovarvi, scoprire di non avervi mai conosciuto davvero prima di adesso e potermi sentire e dirmi vostra amica. Per me è un onore far parte della vostra vita e sono felice di aver parlato lungamente con te, Patrizia, grazie per tutte le volte che mi hai fatto compagnia, sei un’amica speciale e io sono un po’ più ricca avendoti nella mia vita. E poi… Poi che altro? Mi sono sentita piena di energie, mi sono iscritta al corso di doppiaggio, che continua ad affascinarmi, a volte mi pare inaccessibile e impossibile da continuare, mi scoraggio molto, ma poi ritrovo l’entusiasmo e mi affascina troppo questo mondo, spero che il percorso sarà molto lungo e che mi divertirò ancora alle lezioni di dizione e mi sentirò ancora completamente rapita durante le lezioni di doppiaggio, mentre aspetto la prima lezione di recitazione e sto impazzendo dalla curiosità. E poi… Be’, quest’anno non è finito e ormai mi aspetto di tutto. Mi ha fatto anche un altro regalo, dei giochi de le porte normali, poter urlare tra la gente, dimenticare, mettere in conto che poteva succedere. Ed è successo, siamo risultati tutti positivi, tranne mia nipote che ce lo aveva avuto due mesi fa. Due mesi fa ero il ritratto del panico, ora l’ho preso con molta calma e, quando è toccato a me,ho provato solo sollievo. Si è fatto attendere ‘sto tampone positivo, ma è arrivato. Non sono stata neppure male e, con ogni gesto per soffiarmi il naso (il raffreddore era in effetti un raffreddore coi fiocchi, il secondo dell’anno per altro,prima raffreddore raffreddore poi raffreddore da Covid), se ne andava un po’ della mia paura. Un po’ di ansia ce l’ho avuta quando tossivo, avevo poca febbre e il tampone era negativo senza capire perché, ma poi ho provato sollievo. All’inizio mi arrabbiavo perché non riuscivo a fare niente,per la stanchezza, dopo invece sì, ho passato tanto tempo con mamma, in isolamento con me, e ho trovato il modo di divertirmi e, alla fine,quando siamo uscite per l’ultimo tampone ed è risultato negativo, ho urlato “evvaiii” davanti a tutti e mi sono andata a prendere il primo Cappuccino dopo tanto tempo, il primo Cappuccino nella mia città. Quest’anno poi siamo tornati anche al mare e quanto è stato emozionante trovarmi di nuovo davanti alla sua bellezza. Al mare per una settimana ho respirato normalità, ma adesso sento che quella normalità non è un’eccezione, è totale ed è stato bellissimo respirare di nuovo l’aria senza mascherina. Quindi, alla fine,grazie Covid per esserti fatto vedere e per avermi concesso qualche mese di tranquillità e di immunità, adesso tornerò davvero alla normalità e lo farò con molto meno ansia, quasi per niente, e mangiare la pizza in pizzeria è diventato possibile e non ulteriore causa d’ansia. E, adesso, sono qui, è ottobre, ho tante cose da fare, ho gli occhi bagnati di lacrime e sono convinta che io la mia strada non devo andarla a cercare da nessun’altra parte, la mia strada è questa, è scrivere, è ascoltare la musica, è vivere tutto con entusiasmo,è fare esperienze che mi entusiasmano e lasciare indietro quelle, come l’università, che non solo non mi entusiasmano, ma sono solo motivo di fastidio e frustrazione, ringraziare chi ha cominciato a far parte della mia vita, persone e personaggi, autori e libri, grazie a Ermal per esserci sempre, alle conferme della mia vita, a queste due rubriche, Libri senza pregiudizi ed Emozioni da lupi, che mi accompagnano e che fanno parte del mio blog e di me, e grazie a ognuno di voi,per aver letto queste pagine, e per aver letto anche questo mio bilancio,perché il blog ha preso il volo e siamo oltre le 1100 visualizzazioni solo quest’anno. Grazie a tutti coloro che condividono con me i miei sogni e che sono capaci di sognare, perché ques’tanno dovrebbe averlo insegnato, che, anche se ci sono delusioni e non da ultima la mancata qualificazione dell’Italia ai mondiali di calcio, pure quella ci si è messa di traverso, tutto serve e, alla fine, scoprirete che amerete e apprezzerete davvero la forza della luce solo dopo esservi trovati al buio e potrete essere doppiamente e completamente felici, solo dopo aver attraversato il tunnel del dolore ed esserne usciti più forti.

© Arianna Frappini,

Intellettuale orientalista con particolare interesse per la cultura araba

Riproduzione riservata

Fonti:

Esperienza personale

Social

“Domani e per sempre”, Ermal Meta, La nave di Teseo, Milano, 19 maggio 2022, ISBN: 9788834609859

“Il soldato che amava l’alba”, Arianna Frappini, editrice ZONA, Genova, 2022, ISBN: 9788864389776

“Le notti bianche”, Fëdor Dostoevskij, Liberamente, edizione 2020, ISBN: 9788863114409

“Delitto e castigo”, F‰dor Michàjlovitch Dostoevskij, EDIZIONI PAOLINE, ROMA, 1978.

“Guerra e pace”, Lev Nicoàevic’ Tolstòj, EDIZIONI PAOLINE, Roma, 1992

Classici russi corso online di Margarita Smirnova

Frase di Dostoevskij

“I miei ultimi 10 minuti e 38 secondi in questo strano mondo”, Elif Shafak, Rizzoli, Milano, 2019, ISBN: 9788817117906

“La tua bellezza”, Sahar Mustafah, Marcos y Marcos, Milano, 2020, ISBN: 9788871689685

Citata Emozioni da lupi, l’altra rubrica del blog

“La vita che mi ha scelto”, Alessandra D’egidio, Bertoni Editore, Chiugiana (PG), 2021, ISBN: 9788855354325

“Per Alisia”, Patrizia Parlanti, Bertoni Editore, Chiugiana (PG), 2021, ISBN: 9788855352994

Foto scattata dalla madre dell’autrice dell’articolo

L’amore, l’amicizia e l’incantesimo dei nomi: “Il soldato che amava l’alba”

Ogni nome è un incantesimo, come ha anche detto Ermal Meta, una specie di strana magia che ci viene appiccicata addosso dalla nostra famiglia, che, quando apriamo per la prima volta gli occhi su questo mondo, già ci accompagna, che occupa per interi mesi le discussioni, le conversazioni, le notti a pensarci o i giorni a sfogliare le pagine Web, o dei libri, o solo quelle dei propri ricordi. Il nome è una scelta importante, non affatto trascurabile, perché, in quel momento, tu stai decidendo che tipo di impronta accompagnerà la vita di tuo figlio o tua figlia, come potessi già imprimere qualcosa di speciale a quel minuscolo essere, tanto piccolo, ma così grande, tanto fragile, eppure tanto forte, da poter contenere già la vita. Il nome è il primo passo della vita, è come lo stacco dai blocchi di partenza, quando ti fiondi, di corsa, nella corsia, per raggiungere il traguardo. Il nome è un’impronta che resta impressa nel gesso e si salda nel sangue, si sposa alla pelle, si associa a quel volto, a quegli occhi, a quei capelli, a quel carattere, a quel cuore. Il nome è una delle caratteristiche che, più di altre, ci contraddistingue e ci distingue dalla nostra famiglia e dagli altri. Ed è stranissimo che una cosa così importante non dipenda da noi, ma dagli altri, dalla nostra famiglia, che ha il compito delicato di scegliere il nome giusto, un’impresa che sembrerebbe, a prima vista, impossibile e assai troppo complicata, eppure è anche naturale. per quanto tempo tu ci metta a decidere quel nome, alla fine, lo scegli, anche solo guardando tuo figlio o tua figlia, come capissi, sentendolo per la prima volta, che quello è il suo nome, che quello è il suo incantesimo, che quella è la magia della sua anima e che quella è la carezza che tu gli infonderai sul cuore. Per conoscerlo e riconoscerlo. E il nome, anche se non si sceglie, contiene una quantità di cose, che, forse, non ne abbiamo un’idea o forse non ne hanno neppure bene idea coloro che lo scelgono, eppure, in qualche modo, lo sanno. Sanno ciò che fanno, ciò che dicono, come ti chiamano e, probabilmente, sanno anche che, un po’, stanno tracciando il tuo destino, quasi potesse essere contenuto, un po’, tutto lì, nelle lettere magiche che compongono i caratteri di un nuovo nome, che può anche essere particolare o anche il più comune dei nomi, ma addosso a quella persona calzerà in modo diverso, quella persona lo sentirà in modo diverso e darà corso a quel primo passo, a quel primo raggio di sole, a quel primo sussulto dell’anima,a quel primo battito d’ali. E ne farai il tuo contenitore più grande dove riversare tutta la tua vita, dirigendo il timone di un destino, che lì nasce, ma comunque devi portarlo insieme a te a crescere, a svilupparsi, a cambiare, a svoltare del tutto, a fare inversioni e a ricominciare, se necessario, riscrivendo, spesso, tutto da capo. Io sono sempre convinta che noi siamo padroni del nostro destino, che lo possiamo sempre mutare e rivoltare, che siamo noi che ne tracciamo le lettere, che voltiamo le pagine e che scegliamo quale direzione fargli prendere. Tuttavia, non si può non dire che, nella vita, non tutto è dovuto alle nostre scelte, alla nostra intelligenza, alla nostra volontà. C’è almeno una parte di destino che non possiamo controllare,, se volete, possiamo chiamarlo volontà superiore, oppure solo caso, oppure una serie di circostanze apparentemente casuali che ti fanno fare quella cosa quel giorno, o incontrare quella persona quella sera, e che, in silenzio, soavemente, eppure profondamente, si imprimono sulla tua vita e la cambiano per sempre. Sta a te, certo, capire quelle occasioni, però, spesso loro sono ben più forti di te e non ti danno un’altra scelta e tu, quando ti capita una cosa meravigliosa, ti chiedi ma perché non prima, perché non in un altro momento. E allora ti rispondi, forse un po’ inconsapevolmente e sorridendo, era destino. Ed è vero, certe cose non potevano accadere prima, ma erano destinate, chissà poi chi è che lo ha deciso, Dio, la vita, il caso, le forze misteriose degli infiniti casi dell’esistenza, ad accadere lì, in quel preciso luogo, in quel dato momento della vita, in quella ben determinata predisposizione d’animo, magari anche in mezzo al dolore, per portarti conforto, invece di apparire in mezzo alla luce e alla felicità. La vita è così. Sa essere tanto imprevedibile, quanto decisa da noi. Sa riservare le sorprese, che noi possiamo solo cogliere. Sa darci molto spazio, ma sa anche prendersi tutto il suo spazio. Sa farci diventare protagonisti e sa prendere tutta la scena. La vita non è solo scelte, come la vita non è solo destino predeterminato. Io non sono una persona fatalista, ma non sono neppure solo una persona razionale. Un po’ di irrazionale, nella vita, c’è. E, per fortuna, c’è. Se fosse tutto freddo, lucido, razionale, sarebbe una noia mortale e non ci sarebbe gusto. Certo, il prezzo da pagare perché ci siano sorprese è che non sono sempre imprevedibilmente bellissime, ma possono essere anche terribilmente spiacevoli, tuttavia è un rischio da correre. La vita è un continuo rischio, è un continuo viaggio, è un continuo mettersi alla prova e riuscire a superare ogni ostacolo, è come camminare su una corda sottile, sapendo che puoi sia cadere, sia volare, e sai che un po’, forse per buona parte, dipende da te, ma c’è una parte indipendente dalla tua volontà, qualcosa che lo decide qualcun altro, o qualcosa che lo decidi pure tu, ma inconsapevolmente, facendo ciò che ti dice l’istinto e ciò che sembra sussurrarti, all’orecchio dell’anima, il tuo destino. E la prima parte di destino che non scegliamo noi, che mormora e parla alla nostra vita, è appunto il nome. Il nome è il nostro primo riflesso. Il nome è quel qualcosa che magari ci piace, o a volte non ci piace, ma è come un regalo troppo bello da rifiutare o da voler cambiare. Qualcosa per cui io non so poi com’è che alla gente non piaccia il proprio nome, è come dire che non ti piace la tua vita o non ti piace la carezza del destino. Le carezze non si rifiutano, questo mondo è troppo brutto, per respingere le cose belle. Magari,a volte, si dice che è brutto il nome, come si dice, nei momenti di sconforto, che è brutta la vita, ma, alla fine, l’esistenza ci convince sempre che è bellissima,meravigliosa anche nel suo dolore, più forte di qualsiasi tempesta e, con lei, resistiamo noi e resiste, anzitutto, il nostro nome. Io sono estremamente legata al mio nome e ai nomi in generale e per me il nome è qualcosa di solo apparentemente piccolo, qualche carattere, un suono diverso dagli altri, qualcosa che in realtà è un contenitore grande, è come una scatola che ci regalano, tutta decorata, e noi dobbiamo metterci dentro quello che siamo, riempiendo quel contenitore, che, se non ci mettessimo la nostra opera, rimarrebbe solo una bella scatola vuota. Il nome è il nostro primo contenitore, che portiamo sempre con noi. Il nome è la casa della lumaca, che ci portiamo sulle spalle, ma non è pesante, è leggera, è sottile, eppure profondissima, che si salda con il cuore e che ci accompagna i movimenti delle mani, dei piedi, dell’anima. Ed è bellissimo riempire il tuo nome e dipingerlo di tutti i colori che vuoi, ma è anche bellissimo, e lo è proprio perché se ne sente la responsabilità e il brivido del mistero e dell’importanza, darlo un nome. Stare svegli per ore, o magari, poi, ancora per caso o per destino, soffermarsi su un solo nome e sentire che, sì, è quello giusto. Un nome va sentito, prima da chi lo dà, poi da chi lo riceve. E, per quanto tu possa pensarlo e ragionarlo, il nome alla fine dei conti è puro istinto, è quel qualcosa che ti scatta dentro e dici: sì, questa bambina si chiamerà così, questo bambino si chiamerà in questo modo oppure, nel mio caso, questi personaggi avranno un tale nome. E il nome non si cambia., come non si muta quella parte di destino irrazionale e sorprendente, altrimenti non sarebbe più tale. Il nome contiene insieme la vita, il passato, il presente e il futuro. E per me mettere i nomi ai personaggi è qualcosa di magico, di incredibile, un vero incantesimo, che si ripete, ogni volta, le mani sulla tastiera e tutta l’anima protesa allo scrivere. E, quando scrivo quel nome, posso averci pensato,ma l’attribuzione a quel personaggio è immediata, istintiva, quasi inspiegabile. Può avere tante spiegazioni, oppure, alla fine, può non averne nessuna. Un nome non ha un perché, un nome ha un dove, un quando, un chi e anche un come, però non ha un vero motivo,come le cose che contano, come l’amore (come dice Ermal). Perché attribuire un nome è un atto d’amore ed è un’emozione importante, come se tu un po’ condizionassi quell’intera vita, che all’inizio si regge solo su di te, poi piano piano comincia a camminare da sola, diventando anche altro da te, pur rimanendo una parte del tuo cuore. Così per i figli, così per i miei personaggi e non mi stancherò mai di dire che all’inizio sono io che parlo attraverso i miei personaggi, hanno un nome, la loro identità si va definendo piano piano, per capire se si reggono passando dai pensieri alla pagina bianca, ma poi, e deve succedere così, altrimenti non funziona, diventano loro che parlano attraverso di me e io sono una porta (qualcosa del genere lo ha detto anche Ermal, citando Vasco) per raccontare prima alla pagina, poi agli altri le loro vite, le loro esistenze, i loro destini, quelli che si scrivono, agendo,parlando, amando, odiando, e quelli che li ha decisi qualcun altro, che forse sono io, o forse è solo il destino, quello che è contenuto nel nome, nel caso, nelle coincidenze e in quella magia che è difficile spiegare e che è impensabile mutare in corso d’opera. Cambiare un nome a un personaggio quando si regge da solo e assume la sua vita è assurdo, controproducente e fastidioso, un’operazione tanto inutile, quanto distruttiva. Non si cambia il nome a metà della vita, è come mutare tutta l’esistenza, tutta la storia ed è come se, di colpo, se togliessi il nome e lo sostituissi con un altro, facessi crollare tutto l’edificio che si è costruito e tutto cadesse in mille pezzi e dovresti ricominciare tutto da capo, a raccontare un’altra vita e a dare forma, o a lasciare che si dia forma da solo, a un altro destino. Il nome si cambia, se proprio non ne puoi fare a meno, subito, quando sta ancora nascendo,a volte ci sta che ci pensi un attimo e che scrivi due o tre nomi e ne scegli uno, a volte capita che ci vuole un po’ di più, ma, quando lo hai deciso, quello resta e si attacca al personaggio, con un’operazione talmente istintiva e talmente naturale, che non saprei spiegare. È come se avessi nella mia testa, diciamo sullo sfondo, tutti i nomi che conosco, come se vorticassero nel vento, e solo uno fosse più chiaro, più evidente, venisse trasportato dall’aria e si fermasse sul davanzale della mia finestra e a me non resta che raccoglierlo, leggerlo e poi scriverlo, attribuirlo a quel personaggio e sentire che diventa un tutt’uno con il suo nome, comincia a scorrere attraverso la storia e a fondersi con il suo destino. E non si sa bene cosa ci finisce poi nel nome: suggestioni, ricordi, provenienze, gusti, vibrazioni. Tutto, in pochi caratteri, tutto in una riga, tutto quando sei lì, in mezzo al mare o tra le montagne, in pianura, accanto a un castello, e vedi nascere un personaggio, che, magari, non è un neonato, è già grandicello, eppure, è come se nascesse in quel momento, indipendentemente dall’età che ha, esattamente quando diventa qualcos’altro, presenza reale, palpabile, visibile e udibile nella pagina, altro che puro pensiero o pura idea. A volte il nome nasce già nella testa, quando ho l’ispirazione per quel libro, altre volte, invece, non so come si chiamano quei personaggi, finché non li scrivo. Comunque sia è ogni volta una magia, una carezza, qualcosa che ripeterei migliaia di volte, eppure è un momento ogni volta irripetibile, che non posso decidere quando avviene, o per lo meno non lo posso decidere solo razionalmente: un po’ sì, un po’ di ragione nel momento della scelta c’è (solo nel quando), ma nella scelta poi c’è tutta l’irrazionalità dell’ispirazione. Se fossi troppo razionale, non ascolteresti le vibrazioni e probabilmente non scriveresti una riga. Devi affidarti all’istinto, a quel bisogno, a quella necessità di scrivere una storia, anzitutto per te, senza stare a pensare al momento successivo della condivisione, e pensando solo ai tuoi personaggi e ai loro nomi. E, una volta che li hai attribuiti, così, con tutta la magia del caso, puoi cominciare a partire e puoi star sicura che quella storia ha senso, magari non prenderà subito una forma ben definita, ma, una volta che c’è il nome del personaggio, puoi andare ovunque, anzi lui o lei può andare e portarti ovunque. Il nome è il primo passo della vita, come il nome è il primo passo della scrittura. E sono poi la stessa cosa, la scrittura, la vita, la nascita di una nuova vita e la nascita di un nuovo personaggio. E così, oggi, partendo proprio da questo incredibile incantesimo, voglio presentarvi il libro di cui parleremo oggi, un libro che è particolarmente legato al mio cuore e lo è perché l’ho scritto io. Qui, oggi, due anni dopo da un articolo che più che recensione si era fatto presentazione, sono di nuovo qui, per presentarvi il mio nuovo libro, il secondo. Si intitola “Il soldato che amava l’alba” e ho scelto di parlare dell’incantesimo dei nomi perché è assolutamente fondamentale, qui come altrove, ma mi piaceva l’idea di legare questo libro in particolare a un discorso di questo tipo, perché sento di dover difendere ciò che è mio e di dire che i nomi sono perfetti, e non esiste un nome imperfetto o fuori luogo, e ho sentito, veramente, che nei loro nomi c’è parte già del loro destino e della loro vita, a partire dal particolarissimo nome del protagonista, il più particolare dei nomi che io abbia mai attribuito, che forse fa vedere più chiaramente tutto ciò che abbiamo detto fin qui. Il protagonista si chiama William Catone Minetti. Tutti, pure io, lo chiamano William, tuttavia, quando deve presentarsi, nelle occasioni ufficiali, nei momenti importanti, il doppio nome ritorna ed è sempre presente, anche quando non viene nominato, come una sottile e fondamentale presenza silenziosa. Sono stata io, certamente, a scegliere il suo nome, non mi dite come, e non chiedetemi perché. Non c’è un vero motivo e non so neppure com’è che ho fatto a unire due nomi tanto diversi, eppure, quando li ho scritti insieme, ho sentito che era questo il suo nome e che questo personaggio, che si è fatto tanto attendere, alla fine, è arrivato ed è arrivato con tutta la grandezza e con tutte le sfaccettature della sua anima. Questo libro nasce dall’idea di un gioco di principesse con mia nipote Sheila e questo personaggio era presente, ma era secondario, semplicemente un soldato senza nome. IL nome lo ha acquistato subito, qualche riga più giù dell’incipit, quando ho deciso che quel gioco volevo trasportarlo in un libro, in quel giorno magico del 2014. Quando ho scritto le prime parole di questo libro, ho scoperto due cose: che il libro sarebbe stato scritto in prima persona e che la voce che avrebbe raccontato la sua vita apparteneva a quel soldato senza nome, che acquistava un nome, nome attribuito da me, ma attribuito, comunque, dai suoi genitori e dal destino, di cui io sono stata messaggera. Quindi, gli ho dato il benvenuto e per me è stato un onore conoscerlo, raccontarlo e farlo in questo libro, in questa forma, e a partire da questo nome. Si chiama William, per volontà della madre Margaret, in omaggio al suo autore preferito, William Shakespeare, forse uno dei più grandi di tutti i tempi, e si chiama Catone, per volontà del padre, in onore di Catone L’uticense, personaggio dell’antica Roma assurto a simbolo di libertà in buona parte della letteratura, perché si tolse la vita per non sottomettersi a Cesare. E il suo destino sta già qui, nel suo doppio nome. E c’è anche il suo carattere, e i tratti della sua identità, che si vanno definendo con la crescita, stanno già tutti lì, si svilupperanno,aumenteranno, muteranno volto, ma assomiglieranno sempre alla dolcezza e alla completezza del suo nome: è insieme sensibile, romantico, sentimentale, come potrebbe suggerire il primo nome, ma anche deciso, combattivo, che tende a qualcosa in più che a essere il soldato che combatte per gli interessi di un re, vuole essere il soldato che combatte per la sua terra, per la sua gente, fedele, leale, che, in tutta la sua vita, dentro alla guerra e fino in fondo al freddo, cercherà di non perdere mai la sua generosità, la sua umanità, il suo amore e la sua tensione costante alla vita e alla luce, con gli occhi perennemente puntati al sole che sorge,e non solo in senso letterale, ma anche in quello figurato, di chi trova sempre la speranza anche nella disperazione e anche di nuovo il sole dentro a qualsiasi notte buia,. William è un soldato. E William ama l’alba. William è il soldato che amava l’alba, capace di rialzarsi dopo ogni caduta, di aiutare i suoi amici a restare in piedi e anche di conquistare il cuore di una donna speciale, una donna che odia i soldati ed è convinta di non essere fatta per l’amore. Per William niente è impossibile e, anche ciò che pare improbabile, lo trasforma in realtà, come si trasformano in realtà i sogni e come solo i sogni possono reggere ilcuore, anche quando pare vacillare o cadere in mille pezzi. E tutto questo libro è percorso dall’incantesimo del suo nome e degli altri nomi, che contengono il loro destino, la loro vita, la loro magia, forse un’impronta anche esotica, per così dire, quando sono particolari, che sono liberi come gabbiani che volano nel cielo, che vibrano nell’aria senza catene e che non hanno una spiegazione, se non una, la sola possibile: l’amore. E l’amore pervade queste pagine, le attraversa, le accarezza e ne solca gli orizzonti. L’amore e l’amicizia sono i due punti d’appoggio su cui il libro si regge, i temi irrinunciabili per ogni storia, forse anche i più scontati, o forse solo i più normali, e ultimamente abbiamo imparato che neppure la normalità è scontata. E ogni storia è un miracolo, ogni nome è un miracolo, ogni amicizia e ogni amore della nostra vita sono un miracolo e sono un regalo, anche quando li smarriamo, li perdiamo, li ritroviamo o li cambiamo. L’amore e l’amicizia si reggono comunque, anche se mille amori ci hanno deluso o mille amici ci hanno voltato le spalle. I fallimenti non intaccano la loro bellezza, la loro importanza e la loro centralità nella vita, come nelle pagine di questo romanzo storico con ambientazione temporale reale (inizia nel 1823) e con una spaziale un po’ inventata e aggiustata a seconda delle esigenze del racconto, in questo romanzo che è anche e anzitutto romanzo di formazione e di crescita. All’inizio William è un bambino, poi, piano piano, diventa un ragazzo, un adolescente, un soldato, un uomo. E non potrebbe mai diventare uomo e soldato senza l’amore e l’amicizia e si sente veramente appagato, felice, quando conosce la completezza e la totalità dell’amore ripagato e ricambiato. È cresciuto lungo tutto il libro, ma, solo alla fine, di fronte a un’alba diversa dalle altre, si sente grande, completo, totale, forse solo, in conclusione, può riempire il suo nome di quella felicità che ti fa fermare a guardare la vita e di quell’amore che ti fa decidere che è arrivato il momento di non essere più in uno, ma diventare due, far nascere un noi e saldare il tuo destino con quello di qualcun altro, e non vedi l’ora di dirlo ai tuoi amici, che hanno il compito di renderti ancora più bella la felicità, ma anche di dissolvere la tristezza, di curare il dolore e di starti vicino per affrontare e superare persino la guerra. La guerra, essendo la storia di un soldato, è ovviamente presente ed è presente con tutta la sua capacità distruttiva, come quella cosa che andrebbe sempre evitata e che, troppo spesso, sembra che non si possa evitare, come fosse la sola soluzione possibile, o forse solo la più facile, perché la pace, il dialogo, sedersi e discutere sono cose difficili, è molto più semplice prendere un fucile, sparare, distruggere e mandare a morire gli altri. È altra cosa andare a morire e sapere di combattere in prima persona. Questo libro è raccontato da un soldato e la guerra che vi è narrata non è la guerra dei regnanti, degli interessi di un re o di un altro, ma la guerra di un soldato che vuole difendere la sua terra, che vuole combattere per ciò che è suo, per proteggere la sua famiglia, la sua vita, per rendere possibile il suo futuro. LA guerra di questo libro ha due facce, che si fondono in una sola: la guerra è distruzione, devastazione, morte, dolore, ma la guerra è anche valore, credere in un ideale, combattere per sé,per i propri affetti, per la propria terra, cercando di restare sempre se stessi, umani, presenti in quel luogo, ma anche capaci di fuggire con la mente altrove, per salvare il cuore e salvaguardare la lucidità con la sola cosa che rende capace William di restare in piedi e, come lui, anche noi: la capacità di evadere e di fare mille viaggi con la fantasia e di imprimere sulla realtà spesso cruda e crudele l’impronta dei sogni, non solo quelli di notte, a occhi chiusi, ma quelli a occhi aperti, che ti guidano sempre avanti, che ti fanno guardare il sole, che ti fanno dire che il giorno migliore è quello che hai davanti a te e, anche se quello che ti lasci dietro le spalle è distruzione, è freddo, è disperazione, puoi sempre lasciarti illuminare dalle stelle e sapere che, anche quando pare impossibile o solo momentaneamente improbabile, l’alba tornerà di nuovo, il sole rialzerà la testa e rinascerà dalla coltre della notte, per dire che, anche quando sembra che tutto sia perduto, finché tu sei capace di ritrovarti, anche la vita, la speranza e la felicità saranno sempre capaci di trovare la strada per giungere fino a te.

© Arianna Frappini,

Intellettuale orientalista con particolare interesse per la cultura araba

Riproduzione riservata

Fonti:

Varie interviste di Ermal Meta

Citato articolo precedente di Libri senza pregiudizi

“Il soldato che amava l’alba”, Arianna Frappini, editrice ZONA, Genova, 2022, ISBN: 9788864389776

Foto della copertina scattata dalla madre dell’autrice

L’amore, la pazienza e la saggezza di un gatto: “Le nove vite di Tito d’Amelia”

I gatti hanno qualcosa di speciale. Avevo avuto questo vago sospetto qualche anno fa, ne sono passati già quattro, quando vicino a casa nostra è capitata una gatta che ha dato alla luce sette bellissimi cuccioli e mia nipote, un’amante di tutti gli animali, ha insistito perché ne prendessimo uno. Noi, scetticissime, abbiamo tentennato un po’, abbiamo sempre preferito i cani e ne abbiamo due, cosa che ci scoraggiava un po’ nel prendere un gatto. Però, alla fine, ci siamo lasciate convincere, mi sono lasciata convincere più che altro, e abbiamo detto va bene, prendiamo una gattina nera, ma non c’è stato niente da fare. Era una gattina decisamente scontrosa, che si nascondeva in tutti i buchi possibili e non si faceva prendere. Non c’è stata una volta in cui l’abbiamo potuta accarezzare. Sarà stata una gattina ribelle, uno spirito libero che voleva andarsene per i fatti suoi. Ma ogni volta, puntualmente, quando andavamo a vedere i gattini, c’era un gattino bianco e arancione, sempre quello, che si avvicinava con una dolcezza spiazzante e si faceva accarezzare, prendere in braccio, portare a casa, riportare nel suo piccolo spazio insieme a gli altri e, il giorno dopo,quando noi tornavamo di nuovo per provare a prendere la gattina nera, lui ti ricapitava. E stava lì, come a dire “prendete me”. Di una bontà e di una dolcezza uniche. In qualsiasi posizione lo mettevi, faceva le fusa. La cosa è durata qualche giorno, veramente pochi, poi abbiamo deciso di prendere lui. E io ero una delle più entusiaste dell’idea. Lo abbiamo portato a casa. Con i nostri cani è andato d’accordo, con Desy subito, con Lulù ci è voluto un po’, ma, alla fine, si sono messi a condividere il tappeto. E sono stata io, che ero tra le più scettiche, a dargli un nome, così, istintivamente, ma, pensandoci, è proprio un nome azzeccato: Lampo. Ma non perché corre da tutte le parti o è velocissimo, anzi, è un gatto molto tranquillo e sta sempre vicino a casa nostra, ma perché è arrivato così, come un lampo, come una bellissima sorpresa. Certo, alcuni della famiglia, pur conquistati, non vogliono farlo entrare in casa, però, fino a poco fa, era assolutamente improbabile che prendessimo un gatto e lo abbiamo preso, quindi una cosa per volta, non si può mai sapere che cosa succederà in futuro. La sola cosa certa è che io ho detto una verità che, ora, mi rendo conto era proprio reale, che, forse, è così che funziona, forse non sei mai tu a scegliere un gatto, ma è lui a scegliere te. Lui ha scelto noi e ha tentato con la sua dolcezza e la sua discrezione di insinuare il dubbio che magari anche i gatti potessero essere animali veramente dolci e ce l’ha fatta. Con me ce l’ha fatta. Continuo a preferire i cani, ma sono sempre più convinta che i gatti hanno qualcosa di speciale e che non si dovrebbe mai esitare quando si decide di prenderne uno. Perché un gatto ha qualcosa di unico, qualcosa che non si sa bene poi cos’è, ma qualcosa che ti conquista, qualcosa che ti riempie il cuore d’amore, forse saranno davvero le sue dolci fusa, il suo pelo morbido, il suo amare il sole, il suo amare la casa e il luogo che si sceglie, forse la sua incredibile capacità di vedere al buio, forse tutto un insieme di sue caratteristiche particolari, che lo rendono un animale molto intelligente, attento, preparato, capace di scattare come una molla nei momenti più imprevisti o capace di restarsene, con la stessa dolce indolenza, piazzato in un luogo da cui non lo smuovi ma neanche. I gatti hanno qualcosa nell’anima, negli occhi, nel pelo, in quel loro modo di porsi al mondo, che incanta, che conquista, che invita ad accarezzarli, a tenerli con sé, a considerarli parte della famiglia, dentro casa o fuori che siano. Diventano qualcosa di irrinunciabile e, quando non ci sono, ti chiedi dove sono e ti preoccupi che possa succedere loro qualcosa o che si possano allontanare troppo. Ma lui resta sempre lì, torna sempre lì,non si allontana mai troppo, non litiga quasi mai e ritorna fedelmente nella stessa casa. E non è solo per il cibo, ma è perché è stato lui a scegliere quella casa. E, quando scegli qualcosa, ti ci senti sempre più legato, quasi potessi fare parte delle pietre, o del prato, degli alberi, o dei muri. E, quando conosci i gatti, ti rendi conto che, forse, è vero, sì, che anche gli animali hanno un’anima, fanno delle scelte, hanno una sorta di istinto che li porta ad accasarsi in un luogo,per tutta la loro vita, senza volersene mai staccare, senza preferire altri luoghi, senza che niente riesca a smuoverli e a spostarli da lì, dove tornano sempre, dove li ritrovi sempre, dove, quando li chiami, si fanno sempre vedere e, non appena esci di casa, te lo trovi da qualche parte, acciambellato in una coccia di fiori (gli perdoni pure quello) o steso al sole e, quando lo tocchi, ti fa le fusa. Le fusa del gatto sono misteriose, come una melodia, sì, una dolce melodia appartenente a un’altra dimensione, alla dimensione particolare e speciale in cui vive e, anche se di rado, il gatto può anche soffiare o gonfiarsi, lo fa quando è spaventato, per difendersi, ma il nostro sempre molto poco e soltanto all’inizio con Lulù, il cane che sta in giardino, prima che facessero amicizia e stabilissero tra loro un’intesa assolutamente perfetta da cui noi umani dovremmo solo imparare, perché, hanno ragione loro, non esistono pregiudizi, preconcetti, idee che tengono davanti alla dolcezza, al calore, alla condivisione. Gli animali condividono la stessa casa, a volte anche le stesse cose, molto più generosi, istintivi, veri di noi, delle nostre gelosie e delle nostre paranoie. Gli animali, cani o gatti che siano, hanno qualcosa di rassicurante, come ti parlassero con il loro silenzio e non potrebbero forse dirti le stesse cose, non con la stessa intensità, non con la stessa discrezione, non con la stessa capacità, con le parole. Parlano meglio con il loro silenzio, la loro presenza, i loro versetti, per i gatti le loro fusa, come ti comunicassero e ti trasmettessero qualcosa, come ti dicessero che ti vogliono bene e, nonostante non parlino, il messaggio ti arriva forte, chiaro e inequivocabile, come se le parole con loro non servissero, perché basta ciò che ti danno e ciò che ti danno è qualcosa di talmente grande che si fa fatica anche a capirlo, a descriverlo, ad analizzarlo per poterlo spiegare. Ciò che un cane o un gatto ti dà lo puoi sapere solo toccando il suo pelo, accarezzando la sua schiena, tenendolo sulle tue gambe, stretto tra le braccia, lo puoi dire solo entrando in contatto con il suo mondo interiore, lo puoi sapere solo guardandolo negli occhi e lasciandoti ipnotizzare dal calore che ti trasmette alle mani, alle gambe, al corpo e all’anima. Gli animali riscaldano, perché gli animali sono dolcezza, calore, emozione, casa. Gli animali sono casa e sono famiglia e, senza di loro manca qualcosa e, quando loro ci sono, è come se la solitudine scomparisse, come se non fossi mai sola quando sei accompagnata dal loro abbaiare o miagolare o dal loro emettere dolci suoni sommessi, con cui cercano di farsi capire. Magari non riesci a interpretare sempre i loro pensieri, magari vorrebbero dirti tante cose che tu non cogli, però, trovi un modo di capirli abbastanza, un modo di condividere una sorta di codice di linguaggio, per cui se miagola in un certo modo oppure fa rumore con la zampetta nella ciotola significa che ha fame. E hai l’impressione che ti comprenda, forse non è solo un’impressione, gli animali ti capiscono molto meglio di come tu capisca loro e, quando tu non comprendi, sono loro a prendere l’iniziativa, a fartelo capire in qualche modo, a sorprenderti in qualche maniera e a fare cose veramente curiose e incredibili che, se non li vedi, non puoi crederle possibili. Il nostro gatto, per esempio, nel periodo in cui stava nell’ingressetto di casa al piano di sopra, quando voleva uscire, apriva la porta e non è un modo di dire. Quando voleva mangiare o dormire restava lì, ma quando voleva sgranchirsi e andare a fare un giro fuori saltava sulla maniglia, sganciandola, poi scostava la porta con la zampetta e saltava giù per le scale e andava fuori. Deve averla scelta lui anche quella, anche la sua collocazione soprattutto all’esterno. Ha sempre amato gli spazi aperti, anche se quelli familiari, di casa sua, non allontanandosi mai troppo dal giardino e comunque tornando sempre indietro. E noi ci siamo adattati alla sua intelligenza e alla sua presenza. Noi ci siamo abituati al suo modo di agire e a spiazzarmi, quattro anni dopo, è ancora la sua dolcezza. Sì, quanto è dolce e mansueto, quasi a dire “vedete che avevo ragione io e che i gatti sono buoni, non è vero che graffiano o fanno disastri, vedete che avevo ragione io?”. Sì, aveva ragione lui. E, oggi, dopo che ho finito di leggere un altro libro bellissimo, ho definitivamente capito che non era una mia impressione, che Lampo ci ha scelto davvero, che anche i gatti hanno qualcosa di speciale, qualcosa di talmente speciale, che ti trasmettono con le loro cellule, appena li sfiori, che vale la pena di essere vissuto, perché è questo l’unico modo per capirli e capirlo, è amarli. E viverli. L’amore è la chiave di tutto, ancora una volta. L’amore è capace di muovere il mondo, di rendere una casa un posto ancora più bello, di amare ciò che la rende davvero tale. L’amore può legare persone, animali, cose, superare i confini, i pregiudizi, le diffidenze, abbattendo le barriere, distruggendo i muri e rendendo assolutamente vane le difese. Non ci può essere una vera difesa per l’amore. L’amore rende inutili le difese, le corazze, gli scudi. L’amore non può avere difese e non puoi avere difese, quando conosci l’amore. E l’amore quello vero è sempre incondizionato, totale, completo, appagante. E quello degli animali e per gli animali ha davvero qualcosa di speciale. Non è affetto, o un semplice legame senza nome. È amore, perché è l’amore il solo modo per chiamare la loro presenza, la loro capacità di essere lì al momento giusto e di parlare con il silenzio. L’amore è sempre la risposta, che apre tutte le porte, che svela tutti gli arcani e che riesce a trovare un nome e una parola a ciò che a volte è così difficile descrivere. L’amore è indefinibile. Forse è la cosa più indefinibile che ci sia, ma è anche la più bella, la più dolce, la più qualsiasi cosa. La più incredibile, che si può capire solo vivendola, solo conoscendola, solo calandoci nel suo calore con tutte le scarpe. E, per quanto mi riguarda, ormai ne sono convinta, puoi conoscere l’amore solo se hai un animale, che sia un cane o un gatto, solo conoscendo loro, puoi conoscere l’essenza profonda dell’amore e quella dolcissima essenza della vita, perché la vita è amore, l’amore è vita e loro sono sia amore, sia vita. Contengono in loro tutto quanto, come ti potessero svelare i segreti che tu neppure conosci, che loro invece conoscono, che sentono in anticipo, che parlano molto più con la natura, molto più di come faresti tu e ti trasmettono quell’istinto, quella dolcezza, quella loro conoscenza e quell’amore e, solo avendo tenuto un animale in braccio, potrai dire di conoscere l’amore e il calore, potrai dire di aver veramente vissuto intensamente, in sinergia sia con lui, sia con la natura circostante. Gli animali sono un ponte con il mondo esterno, quello che loro conoscono meglio di noi e con il nostro stesso mondo interiore, perché ci toccano qualche corda nascosta che noi magari non sapevamo neppure di avere, abbattono i pregiudizi, scardinano le convenzioni, stravolgono gli equilibri e riempiono i loro umani di una luce, di una strana luce, che migliora le vite, le rende più leggere, pure quando tu non hai proprio nessuna voglia di giocare, loro sono capaci di venirti a rompere le scatole e convincerti a giocare, anche se tu magari hai avuto una giornataccia e tutto vorresti tranne che correre oppure occuparti di qualcun altro che non sia tu. Eppure, quando giochi con loro o quando li prendi in braccio, cedendo alle loro insistenze, scopri che è quello il modo migliore per prenderti cura di te: prenderti cura di loro. Forse è questo il segreto della felicità: prendersi cura di qualcun altro, per prenderci cura di noi stessi. Io non ho risposte, non so esattamente cosa sia la felicità, né poi cosa sia l’amore. Ma so che cosa significa avere un cane e ora anche avere un gatto e so che è una cosa meravigliosa e che gli altri, quelli che non capiscono cosa ci sia di speciale, quelli che continuano a essere scettici, quelli che ridono di chi parla con i loro animali è perché un animale non ce l’hanno mai avuto o, se ce l’hanno, non si sono ancora lasciati conquistare, ma state pur sicuri che i loro animali ce la faranno, perché loro ce la fanno sempre e riescono ad abbattere i muri più alti e a conquistare i più scettici. Se un piccolo dolce gatto ce l’ha fatta con una come me, che proprio i gatti li ha sempre visti con un po’ di diffidenza, allora niente è impossibile e sono tanto felice di poter dire che, sì, ecco, mi ero sempre sbagliata, che ogni gatto ha il suo carattere, la sua vita, la sua identità e che ogni gatto sceglie una persona o una famiglia. Lampo ha scelto noi e negarlo sarebbe come negare la vita stessa o rifiutare l’amore, e sono due cose improbabili, sicuramente per me, ma penso per tutti. E così, anche se non conosci tutte le risposte, qualche risposta in più conoscendo un cane, un gatto o un animale la puoi avere e puoi lasciare che ti trasmettano i loro segreti, che tu magari non riesci neppure a sondare, ma che puoi vivere, condividere e provare a dire. E così, alla fine, quando leggi un libro straordinario, capisci qualcosa in più e comprendi che ciò che avevi solo intuito non era solo vero, ma poteva anche essere molto di più. I gatti, dunque, sono sempre stati speciali, hanno sempre avuto qualcosa di speciale e la loro particolarità sta proprio nel farsi accettare dalle persone più scettiche, nello scegliere i posti più improbabili, nell’incidere su delle vite, facendo conoscere l’amore, la felicità, svelando gli arcani della vita a chi magari non sa niente o sa molto poco e sono capaci di migliorare la vita di chi hanno scelto, con la loro presenza, con le loro azioni, ma anche con la loro immobilità, sempre lì, accanto a te, sul tuo letto o sulle tue spalle. E lo fanno in ogni luogo e in ogni epoca, quasi potessero unire il mondo con il loro misterioso essere, essere come sono, con quei loro baffi che possono vibrare,con quei loro occhi che possono scrutare, con quelle loro unghie che possono nascondere, con quelle loro zampette con le quali possono saltare sui posti più assurdi, con quel loro pelo morbido,con quella loro coda che possono alzare al massimo in quel movimento speciale che ti accarezza le mani se lo fanno quando tu li tocchi, con quel loro modo di comunicare con i loro dolci miagolii, ma soprattutto con le loro fusa, che sono davvero teneri massaggi alla pelle e riscaldano qualsiasi parte del corpo a contatto con loro e ti trasmettono un senso di sicurezza, e quella mano che voleva fare una sola carezza finisce per fare molte carezze, attirata e tenuta là dolcemente appoggiata ad ascoltare quel suo modo unico di parlare. E così, conoscendo già un po’ l’essenza misteriosa e ammaliante di un gatto, non mi sorprendo che, per esempio, per gli antichi egizi era un animale sacro, che in molte civiltà lo consideravano davvero molto importante, che ha sempre accompagnato la storia del mondo, che anche a Oriente, là, nella cultura araba, di cui parliamo spesso in questa rubrica, è considerato molto importante quasi potesse contenere l’eternità e la perfezione. E mi dispiace moltissimo che, nel Medioevo, invece, non era molto apprezzato ed era associato alle streghe, ed è probabilmente da lì che è nata l’idea del gatto nero che porta sfortuna, ed è un vero peccato e uno di quei pregiudizi che è solo come i pregiudizi sanno essere, assolutamente insensato e ingiusto. E scopro tutto questo leggendo un libro che mi aveva incuriosita la prima volta che ne ho sentito parlare, l’estate scorsa. Ero a una presentazione di alcuni libri che partecipavano al premio FulgineaMente. Io c’ero con il mio, “L’ultimo dono prima di morire”, e uno degli scrittori che ha presentato nella mia stessa giornata era Ettore Farrattini Pojani con il suo “Nisa. Una donna, la sua guerra”, ispirato ai diari della nonna, e aveva anticipato che sarebbe uscito il suo nuovo libro a gennaio 2022, che avrebbe parlato della storia della sua città, Amelia, attraverso le nove vite di un gatto. E io avevo detto ho, però, originale la cosa e, non appena ho potuto, l’ho acquistato e l’ho letto. E “Le nove vite di Tito d’Amelia” è davvero un libro bellissimo, uno di quelli che ti fa commuovere, divertire, sorridere, che ti riempie gli occhi di lacrime di emozione, che ti fa nascere le ali all’anima e che ti colma il cuore d’amore. Questo libro è pieno d’amore. L’amore di tutti i tipi, come sempre, l’amore tra le persone, l’amore per la famiglia, l’amore per il proprio partner, l’amore per i propri figli, l’amore per i propri genitori, e, soprattutto, l’amore di un gatto per i suoi umani e dei suoi umani per il loro gatto e l’amore per la stessa città, per la stessa terra, guardata con gli occhi dell’amore, i soli occhi che possano davvero rendere giustizia a un luogo, come a una persona o a un animale. Solo con amore puoi davvero guardare il mondo e scoprirne tutti i segreti celati dietro le sue pietre o dentro i suoi muri. Solo guardando una città con amore puoi davvero viverci, cambiarla, migliorarla, lottare anche quando per tutti la tua è solo un’utopia o anche quando per la maggioranza sei solo un gatto. Che cosa vuol dire poi che sei solo un gatto? Un gatto può essere una quantità di cose, può trasmettere una quantità di cose, può esplicare un bel po’ di misteri che poi ti chiedi cosa la gente intenda dicendo che è solo un gatto, è come dire che è solo il mistero della vita o solo il segreto dell’eternità. E non c’è da stupirsi che ai gatti, e non ad altri animali, sia stata attribuita quella credenza per cui un gatto ha nove vite (per alcuni popoli sette, come ha fatto notare l’autore nell’interessantissima introduzione), che attualmente significa per di più che è capace di sopravvivere a nove incidenti pericolosi e in grado di cavarsela sempre. Ed è così che noi lo abbiamo conosciuto nei libri che ho precedentemente recensito, per esempio in quello del mese scorso, “I miei ultimi 10 minuti e 38 secondi in questo strano mondo” di Elif Shafak, c’è una gatta che viene trovata ferita da Leila in strada ed è prendendosi cura di lei e facendo di tutto per salvarla che diventa grande amica della sua amica Humeyra, condividendo l’amore per lo stesso animale, che chiamano Sekiz, Otto, come a dire che una creatura che ha sofferto tanto, ma ce l’ha fatta deve avere nove vite per forza, otto delle quali già spese. Così Sekiz è riuscita a sopravvivere con l’amore e le cure di Leila e Humeyra e ha dato al mondo anche dei bellissimi cuccioli, uno dei quali ha continuato ad accompagnare la vita della protagonista fino all’ultimo e accompagnerà ancora quella dei suoi amici. Ma Ettore Farrattini Pojani, nel suo misterioso e affascinante libro, “Le nove vite di Tito d’Amelia”, riporta alla nostra conoscenza la leggenda più antica, quella che vuole che un gatto viva davvero nove vite e che, alla fine del suo giro di rincarnazioni, potrebbe anche diventare una persona, contenendo e sublimando così tutte le sue esperienze precedenti. E il modo in cui l’autore racconta questa leggenda è facendola realtà, intrecciandola conuna minuziosa e attenta analisi storica, inventando personaggi o narrando vicende romanzate di persone storicamente esistite, parlando della storia della sua città e della sua famiglia, attraverso, appunto, le nove vite di un gatto, di quello stesso gatto che venne trovato per la prima volta da Efesto e da suo padre Khepri in quella valle meravigliosa, in quella collina con la fonte, com’è sempre stata chiamata, dove hanno deciso di trasferirsi, attirati dalla bellezza, dalla ricchezza, dalla dolcezza del territorio, quello stesso gatto che il suo primo umano ha chiamato Titolo, in onore delle cariche attribuite dal re Ameroe alle diverse persone che si occupavano delle differenti attività per la sopravvivenza del loro popolo, ma che per tutti è sempre stato Tito, nella sua abbreviazione, e tale è rimasto e rimarrà anche se non riuscirà mai a trasmettere il suo nome, nonostante gli sforzi. Quello stesso gatto che ha accompagnato Efesto nel suo addestramento di cacciatore, insegnandogli la pazienza e facendolo con il suo grande amore e con tutta la sua saggezza, essendo in grado di trovare sempre una soluzione, inventando ogni volta mezzi e riuscendo a conquistare i suoi umani e a rendere la loro vita migliore, come solo un animale può renderla. E Tito è destinato a quella valle, come solo l’amore riesce a destinare le cose, le persone, le anime. E lui proteggerà sempre la sua città, dai suoi albori, per tutti i secoli, come gatto quando è in vita e come anima quando muore. E,per tutti i secoli a venire, rispetterà la profezia del vecchio Hator, che aveva detto che la sua anima avrebbe aleggiato nella valle in attesa di tornare sulla terra per proteggere e accompagnare la sua discendenza, quella del figlio Khepri e del nipote Efesto e la vita della città tutta, che è nata dalla scoperta del cacciatore Khepri, dalla grande intelligenza del re Ameroe e dei suoi cittadini che insieme sono riusciti a costruire un piccolo angolo di paradiso, che si può guardare e amare con lo stesso incanto, non importa quanti secoli possano passare o quante cose possano cambiare. E Tito ogni volta ritorna sulla terra in quella stessa città tanto amata, in quella stessa valle, in quella stessa collina con la fonte, presso gli stessi abitanti e,per tutte le sue vite, è destinato ad accompagnare la discendenza di Efesto, aiutando i vari umani nelle loro vite e accorrendo in loro aiuto nelle situazioni più diverse. In ogni vita sente dal suo vibrare dei baffi quando è che ha trovato l’umano a cui avvicinarsi, che deve scegliere, conquistare dolcemente con le sue potenti fusa e con i suoi indimenticabili occhi gialloverdi, che sanno ammaliare, guidare, suggerire le soluzioni più diverse, trasmettere tutti i suoi pensieri, tranne il suo nome. E non finirà mai di stupirsi come gli umani riescano a capire i suoi messaggi più complicati e non possano capire qual è il suo nome, Tito, per quanto lo pensi intensamente, guardandoli negli occhi. E così deve accontentarsi ogni volta di un nome diverso, di quelli che gli piacciono di più e anche di quelli che gli piacciono di meno. Ma, pur cambiando il nome, Tito è sempre lo stesso, lo stesso gatto amorevole, paziente e saggio che stava sulle spalle di Efesto e accompagna tutti gli altri umani nelle loro sacche, loro in braccio, oppure vicino a loro, in tutte le loro imprese, nelle prove della loro vita, importanti per se stessi o per la città tutta, come la costruzione delle mura, o la difesa della città dagli invasori, o la prosecuzione della discendenza della famiglia di Khepri ed Efesto o la loro stessa felicità. E tito riesce sempre a sceglierli, a conquistarli, a convincerli a prenderlo con loro, a farlo entrare in casa e a ricavarsi un bel posticino a fianco dei suoi umani, su un letto caldo e comodo, inventando le soluzioni più disparate, agendo a volte con la fretta richiesta dal momento, ma adattandosi anche ai diversi caratteri e muovendosi con maggiore pazienza là dove è necessario, con la saggezza che aumenta sempre di più vita dopo vita, quando conosce meglio le persone e si abitua alla loro presenza e, soprattutto, con la cosa più potente e meravigliosa che ha: l’amore. L’amore che prova per i suoi umani, per la sua città, fedele alla profezia di Hator, e l’amore che sa suscitare nei suoi umani, che non possono fare a meno di prenderlo con loro, di confidarsi con lui nei momenti di sconforto, di guardarlo, perché i suoi occhi intelligenti e saggi sanno suggerire le idee più diverse, perché le sue azioni improvvise e intuitive sanno sbloccare situazioni che, se dipendesse da quanto a volte siamo paranoici noi umani, passerebbero secoli senza che succeda niente. Tito è sempre un passo avanti a tutti. Ogni volta all’inizio non sa cosa dovrà fare, ma sa che deve trovare un umano discendente di Khepri ed Efesto e che, in quel momento, quando lo riconoscerà, si renderà conto per quale motivo è tornato in vita e per compiere quale missione la sua anima si è rincarnata di nuovo, il suo corpo è stato di nuovo nella pancia di una mamma gatta, è nato di nuovo, ha guardato di nuovo il mondo, ha riconosciuto di nuovo le vie, nonostante i cambiamenti che avvengono nei secoli, amando sempre quella valle, come il primo momento, e continuando a guardarla, per tremila anni, con gli stessi occhi, con quegli occhi gialloverdi capaci di sondare e trasmettere misteri e di contenere quello stesso amore che lo spinge a tornare ogni volta, ad agire ogni volta, che lo guida una vita dopo l’altra, attraverso nove epoche della storia di Amelia, che viene ripercorsa attraverso la sua storia o, forse sarebbe meglio dire, le sue storie e le storie dei suoi umani, accompagnati in scelte importanti per loro stessi, per la loro famiglia e per la loro città, dove le sole costanti sono l’amore di tito e l’amore per Tito. Tito è un gatto speciale. Tito è l’eternità, la storia che avanza, la storia che cambia, la storia che ritorna. Tito è rappresentante della sua città, uno dei primi abitanti di quella valle, sicuramente quello più attento, che ha il privilegio di vedere la sua città cambiare nei secoli, eppure rimanere sempre uguale a se stessa, contemplandola con lo stesso amore, tornando con la stessa dedizione, prendendosi cura di lei e dei suoi cittadini con la stessa cura dell’inizio, fedele, leale, inesauribile, senza avere paura di aspettare, senza avere paura di agire, spingendo a fare una certa azione, che cambia tutto, e vivendo tante avventure, una più bella dell’altra, senza sapere quale sia la più bella: dagli inizi, alla costruzione delle mura, dall’epoca romana, alla sorprendente trattativa con il re ostrogoto Totila,che risparmia la città, conoscendo la sua bellezza, i suoi piatti tipici, la dolcezza dei suoi bambini e la meravigliosa capacità intuitiva di un gatto che sa sempre come farsi benvolere, che sa sempre come agire e come dare agli eventi la direzione più opportuna per i suoi umani e per la città tutta, pensando anzitutto e in ogni caso sempre al bene comune, fino al Medioevo, quando ha davvero rischiato di rimetterci la pelle ed è stato salvato dal grande amore del suo piccolo umano Colao e dall’intervento dell’imperatore Federico II, che occupa la città e decide di farne la sua base, di preservarla da altre distruzioni e di liberare i prigionieri conquistato dalla sua bellezza e dal grande amore di Colao e di Tito, che per l’occasione si chiama Otto. E qui mi fermo un attimo, prima di proseguire in una breve raccolta di epoche e di momenti,perché il ritratto che viene fatto di Federico II, sia all’inizio del capitolo, sia nel suo ruolo nel racconto merita davvero di essere raccontato e che io dica qualcosa in più. Sarà forse un po’ perché Federico II è sempre stato uno dei personaggi storici che ho preferito, comunque devo dire che il ritratto fatto dall’autore è stato veramente incredibile e meraviglioso, di un’umanità, di una completezza e di un fascino straordinari, la cui descrizione è assai più apprezzabile se si pensa che è comunque nemico della città. Sono sempre sottolineate le sue doti umane, il suo animo sensibile e pacifico, la sua immensa cultura e la sua curiosità su qualsiasi cosa tipica di ogni terra, che sono in contrasto con le esigenze crudeli del potere che non gli consente di essere pienamente se stesso e deve fare l’imperatore, il condottiero, il conquistatore, ma, nella dolcezza con cui tratta Colao e Otto, è semplicemente Federico. E le parole attribuitegli nel suo racconto e nella sua confessione, forse la più vera che abbia mai fatto, vanno in questa direzione e hanno la capacità di consegnare al mondo un ritratto indimenticabile di uno degli imperatori più colti di tutti i tempi, che ha meritato, più che mai lo comprendi qui, il fatto che veniva chiamato Stupor mundi. E poi Tito continua il suo viaggio e noi con lui, attraverso tutte le sue rincarnazioni a intervalli di secoli. Dal Duecento arriviamo nel periodo rinascimentale, quello a cui risale la costruzione del palazzo Farrattini e lui, che si chiama Meo, darà un contributo non da poco, riuscendo anche ad addomesticare l’irascibile Antonio da San Gallo, nelle pagine più divertenti del libro, quando puoi sorridere per il dialetto fiorentino dell’architetto. E poi nel Settecento Tito è accanto a Felice Idea, diventando anche messaggero d’amore, come altre volte era stato, quando, secoli prima, era riuscito a convincere i timidi e impacciati Marcus e Fulvia a diventare una coppia, o quando, ancora prima, aveva assistito all’amore tormentato del sensibile e incompreso Tarzio per i gemelli Laerzia e Laerte, senza poter mai scegliere uno dei due, quando l’amore ti porta anche a fare sacrifici per chi ami, per non farli soffrire, e sei disposto anche ad andartene dalla tua città, lasciando loro una lettera che tocca tutte le corde profonde dell’anima e che è una dichiarazione d’amore e insieme un addio che va letta per poterla capire. O ancora Tito ha partecipato ai matrimoni e alle nascite di tanti altri personaggi, fino all’Ottocento, per provare a rendere lieta la vita triste del piccolo Bartolomeo e fino al futuro, in una sorprendente nona vita, che forse viene intuita prima dai lettori, oppure è tutta una sorpresa, ma che conferma ancora una volta la capacità straordinaria della scrittura dell’autore e l’amore enorme per la sua città e tutta la dolcezza di Tito, di questo gatto speciale che, da oggi, fa un po’ parte del mio cuore e sono convinta che, se vorrete viaggiare insieme a questo libro, farà anche un po’ parte del vostro.

© Arianna Frappini,

Intellettuale orientalista con particolare interesse per la cultura araba

Riproduzione riservata

Fonti:

Esperienza personale

“I miei ultimi 10 minuti e 38 secondi in questo strano mondo”, Elif Shafak, Rizzoli, Milano, 2019, ISBN: 9788817117906

“L’ultimo dono prima di morire”, Arianna Frappini, Gruppo Albatros il Filo, Roma, 2020, ISBN: 9788878422506

“Nisa. Una donna, la sua guerra”, Ettore Farrattini Pojani, Morlacchi, Perugia, 2020, ISBN: 9788893921671

“Le nove vite di Tito d’Amelia”, Ettore Farrattini Pojani, Armando Curcio Editore, Roma, 2022, ISBN: 9788868685881

Foto della copertina scattata dalla madre dell’autrice

Da Oriente a Occidente: tutto il fascino del mare senza fine

Il mare. Che cos’è il mare? Il mare è… Il mare è tante cose. E, anche se la spiegazione del vocabolario una certa idea la dà, non si può dire che si esauriscono tutti lì il suo senso, il suo significato più profondo, la sua essenza che è talmente libera, talmente infinita, talmente immensa che può essere definita soltanto attraverso tanti aggettivi, tanti racconti, tanti punti di vista, tante definizioni, tutto ciò che ci finisce dentro, quando è la massa d’acqua che circonda i continenti e le isole, quando assume i sensi figurati di grande quantità, di eccezionalità, a volte anche di cammino faticoso e pericoloso e quando è ciò che sul dizionario non c’è scritto, ma che può essere visto con gli occhi, ascoltato con le orecchie, aspirato con il naso, assaporato con il gusto, vissuto con il tatto, amato, desiderato, inseguito con il cuore, con i pensieri, i ricordi, i sentimenti, trasportando vite, portandosi appresso i sogni, vivendo avventure, riconoscendo le speranze, ma a volte anche i dolori, contemplando la riuscita di un’impresa, constatando il fallimento di un’altra. E lo fa come lui solo sa fare,a volte piatto, delicatissimo, di una dolcezza sovrumana, che nessuno potrà mai eguagliare, con la sua carezza che sfiora la sabbia, con il suo abbraccio che abbraccia la terra, con la sua totalità dove l’occhio umano si perde e dove i confini, i limiti, le barriere non hanno alcun senso, dove la mente umana si smarrisce e dove il cuore umano si ritrova, con tante sfumature, che dire che il mare è blu è dire poco, il mare può essere di un’infinità di colori da riempire lo sguardo e da saziare l’anima, che, davanti a lui, si sente tanto grande da poterlo contemplare e tanto piccola da poter solo constatare la sua immensità. Altre volte dai suoi colori delicati e dalle sue sfumature indefinibilmente meravigliose e varie, si può trasformare in onde altissime, in schiuma che si espande in ogni dove, con il vento che accompagna e allunga ulteriormente le sue tempeste, i suoi capricci, la sua incostanza e quello che può portarsi via, quando decide che il suo umore è diverso e non resta più niente della piatta tavola dove nuotare, giocare e sognare, diventa qualcosa in cui soffrire, avere paura, lottare, a volte sparire, altre volte farcela, teatro di tutte le avventure più famose, simbolo di mutevolezza in letteratura, ma anche simbolo di quella bellezza salvifica, che lo rende ancora una volta bellissimo, che lo rende sempre bellissimo, perché è talmente tante cose da poterlo amare, da poterlo perdonare. Il mare si perdona sempre. Il mare si ama comunque, anche quando non si comporta bene con le navi e con i malcapitati che ci si trovano in mezzo, quando ci fa capire che lui è immenso e noi siamo infinitamente piccoli, piccoli da essere punti che scompaiono sulla superficie, piccoli da essere punti che camminano sulla superficie, cercando riferimenti, sperando che arrivi la terra, spesso temendo quel viaggio, ma volendolo perché è la via per una vita migliore, altre volte godendo un’avventura, in tutta la sua unicità, quando riesce e quando fallisce, quando fornisce sempre un nuovo approdo, una piccola speranza e ti ridà ciò che ti aveva apparentemente tolto, oppure ti insegna a camminare anche con quello che ti hanno sottratto una sua tempesta e un suo capriccio. Nessuno, mai, nonostante tutto, potrebbe mai avercela con il mare. Nessuno può davvero odiare il mare, anche se a volte cambia come il vento, si trasforma in un istante, è l’opposto di se stesso. Il mare è bello nella sua varietà, nella sua vastità,nella sua impredivibilità. Il mare diventa troppe cose, è troppe cose, si concentra in tante cose da non poter dare una sola definizione, da non poter parlare di un solo racconto, da non poter essere chiamato solo in un modo, perché il mare è tutto, il mare è gli opposti che si uniscono, è i simili che si confondono, è una vastità infinita e poco importa se poi noi sappiamo che dall’altra parte c’è la terra. Per quanto la logica dice che al di là c’è la terra, chi davanti al mare non pensa che è infinito? Non è solo una sciocchezza, una favola di bambini, una leggenda di racconti ancora inconsapevoli. Il mare è davvero infinito, perché tu, anche se sai che c’è, la terra non la vedi mai. Quando guardi il mare, vedi l’orizzonte che si perde nelle sue onde, nel punto in cui si abbraccia con il cielo. Tu dalla terra l’altra terra non la vedi. Tu dal mare, prima che veda la terra, ne passa e, in ogni caso, quando la scorgi meravigliosa davanti a te, non vedi più la terra da cui sei partito. Il mare è infinito, perché ci sono tante cose in mezzo, perché ci sono tante cose dentro, perché è un ponte che collega e non è mai abisso che divide, è uno spazio condiviso da tutta l’umanità dove non esistono i confini della terra e dove anche i confini, se davvero ci possono essere, non sono che linee molto più inconsistenti che sui continenti. Vero, puoi calcolare la posizione esatta e sapere se quel punto di latitudine nord o sud e di longitudine est oppure ovest è di quella nazione oppure di un’altra, però non potrai mai dire davvero che a quella nazione soltanto appartiene il mare. Come si fa a possedere qualcosa di tanto immenso? Una cosa così immensa deve essere di tutti quanti, dell’umanità tutta, che in lui si rifugia, si perde, si ritrova, cerca, quando è elemento della natura, quando diventa metafora della vita, quando è tranquillo, quando è nervoso, quando salva, quando condanna, quando riporta a riva, quando porta nei suoi fondali. Il mare, che è mistero, che è avventura, che è silenzio, il silenzio senza limiti, senza confini, senza fine delle sue onde che tornano ostinate, ogni volta, a formarsi e a infrangersi con la costanza di chi sa che cosa deve fare e con l’incostanza di chi a volte devia dal corso solito, per far sentire la sua voce. Il mare può mormorare, il mare può urlare. Il mare ingloba tutta l’umanità, la trasporta, la culla, la squassa. È il mare a decidere. È il mare a incantare. È il mare a scegliere ciò che noi possiamo provare solo a dire. Il mare non ha confini. I confini sono sempre linee immaginarie e convenzionali, ma sulla terra sono più immediate, quasi più reali, sul mare no. Il mare, se davvero può appartenere a qualcuno, appartiene a tutti. se il mare è di qualcuno, il mare è di tutti, della nazione che sta a est, della nazione che sta a oves, della nazione che sta a nord, della nazione che sta a sud, di tutte le nazioni che lo sognano e ci aspirano, insomma di tutta l’umanità, che grazie a lui conosce nuovi mondi, scopre nuove terre, fa nuove conoscenze. IL mare è un ponte di collegamento, il mare è una connessione, il mare non è mio, non è tuo, il mare non può essere di una sola persona, il mare non conosce l’egoismo, il mare è altruismo, il mare è nostro. Se è di qualcuno, è nostro. Delle nazioni che lo vedono e di quelle che lo sognano o lo vedono solo da un’altra prospettiva, con un altro nome, ma è sempre lo stesso mare. Il mare infinito, immenso, avvolgente che abbraccia tutta la terra, che rappresenta quasi tutta la terra, che è stato chiamato in tanti modi, che si è fatto oceani, stretti, canali o specchi d’acqua che via via sono diventati nomi specifici che impariamo sulle carte geografiche, ma in realtà è una cosa tutta insieme, indivisibile e, se a volte si interrompe con la terra, poi ritorna con lo stesso incanto, la stessa meraviglia, la stessa vita che brulica nel suo interno, e conosce tutto ciò che c’è da conoscere, cose che noi non potremo mai conoscere del tutto. Il mare conosce i poli, i tropici, l’equatore, tutte le latitudini e tutte le longitudini possibili. Il mare conosce l’Europa, l’Africa, l’Asia, l’America, l’Oceania. Il mare conosce ogni singola terra, ogni singolo mutamento, ogni singola avventura, ogni singolo elemento. Il mare sa quello che deve fare, a volte si diverte a variare, fino a confonderci, fino a domandarci qual è la sua vera identità e scoprendo che la sua identità è nella vastità, nella moltitudine, a volte anche nella contraddizione. Il mare è un ossimoro armonico. Non è più una cosa o più un’altra, è tutte le cose. E ha tutto ciò che noi non abbiamo: la grandezza, l’immensità, l’onniscienza e, forse, davvero, l’onnipotenza. Se è possibile qualcosa, qualcosa che sembra impossibile, il mare ti fa cambiare idea, a volte ti sorprende e fa trionfare la vita, a volte diventa tomba silenziosa che accoglie chi non avrà altra sepoltura se non i suoi fondali. A volte è leggerissimo, come poter volare sulle sue onde, altre volte è profondissimo, talmente tanto che il fondo non lo puoi guardare se non ti immergi e, se lo fai, scopri tutto quello che nasconde agli occhi e i tesori che protegge là, dove l’occhio umano può arrivare solo se scendiamo con tutto il corpo e con tutto il cuore. A volte è chiarissimo, talmente limpido, da vederlo il fondo, quando non è tanto profondo, da scorgere la vita guizzare sulla superficie e da essere fortunati di poter camminare su quel fondo sabbioso, scoprire conchiglie, lasciarsi massaggiare dal tepore o dalla carezza fresca dei suoi dolci movimenti ondosi. Altre volte è scuro, da non vedere niente, neppure una via d’uscita, che si può trovare solo cercandola con tutte le forze, o è solo lui che te la fornisce, che decide quando basta, quando torna calmo e tranquillo, come non fosse mai stato agitato e burrascoso. Il mare è tutto questo. Ed è molto di più. Ponte, luogo di viaggi, di sogni, di avventure, mutevole, influenzato dal resto della natura e capace di influenzare tutto il mondo, è sostanzialmente e essenzialmente, semmai si possono davvero raccogliere tutte le definizioni che abbiamo detto e che ancora sicuramente diremo, in un solo modo, forse c’è una parola per definire il mare, che dice tutto, anche se non racconta nessuna delle sue caratteristiche, quasi le contenesse lì, nell’espressione più alta della sua essenza: bellissimo. Il mare è bellissimo. Comunque sia, in qualsiasi modo si chiami, si presenti, qualsiasi cosa rappresenti, il mare è sempre bellissimo. Ed è talmente bello da essere compreso anche quando non viene capito, da essere accettato quando sembrerebbe inaccettabile, da essere amato anche quando qualsiasi altra cosa al suo posto, meno bella e meno incredibile, meno grande e meno meravigliosa, sarebbe sicuramente odiata. Il mare, no. Il mare può essere solo amato e niente di ciò che farà farà mai cambiare idea a chi il mare lo ama. Il mare è tutto quello che sicuramente io non ho ancora detto, con tutte le definizioni ugualmente valide e potrei continuare a riempire pagine senza riuscire a dire tutto. Il mare è il luogo preferito delle vacanze di molti di noi, perché a me (e sinceramente non capisco molto chi sostiene il contrario) distende tutti i nervi, per me una settimana al mare all’anno è tipo molto meglio di qualsiasi cura che si possa prendere e prescrivere. A me rilassa solo il trovarmi davanti a lui, passeggiare con il suo suono nelle orecchie e fino in fondo all’anima. E che meraviglia quelle mattine all’alba, dove i tuoi passi si allontanano lentamente sulla sabbia e l’unico rumore che si ode è la sua voce che ti dice buongiorno, che accompagna la tua giornata, che ti dice buona notte e ti fa vedere le stelle, che ti culla lentamente con la sua ninnananna, che ti sospinge lentamente con le sue barche, che ti spruzza, ti fa divertire, ti fa tuffare, ti fa nuotare. Il mare per me è quanto di più bello la natura abbia mai creato. E la natura ce ne ha parecchie di cose enormi e perfette, ma forse il mare è davvero il più sublimemente perfetto che chiunque abbia creato. Per chi crede, Dio. Il mare è una pennellata che Dio ci ha donato, una pennellata che non è mai di un solo colore, ma di tanti colori insieme, di tante definizioni insieme, di tanti racconti insieme, dell’essenza della bellezza. IL mare non è la concretizzazione della bellezza o della perfezione, il mare è la bellezza, è la perfezione. Il mare è capace di metterci in pausa, di sospenderci i pensieri, di farci dimenticare ciò che fa male, come se anche il dolore si dissolvesse presso di lui e anche il fastidio si allentasse, come non si potesse mai essere arrabbiati quando c’è il mare e, anche quando ci si arrabbia, non è mai come altrove, quasi la rabbia si sciogliesse prima con lui e, anche quando magari sei tesa per qualche motivo, il mare riesce sempre a distenderti, a dirti guarda che io ci sono e posso ancora consolarti, abbracciarti, accarezzarti. Io ci sono, tu, tu ci sei? Io, sì, ci sono. Ed è una delle cose che manca di questo periodo e sarà uno di quei luoghi in cui sarà bellissimo tornare, perché sarà come tornare a casa. Il mare. Il mare che accarezza i dubbi, a volte fa conoscere le paure, poi fa sparire le inquietudini, accoglie, ascolta, raccoglie. Il mare a volte è dispettoso e ti porta via degli oggetti se non stai attento, quasi volesse giocare con te a nasconderli e poi magari, quando si è stancato del gioco, te li restituisce, sulla sabbia, alla fine dell’alta marea. A me una volta è successo, con gli occhiali. È difficile parlare del mare e dire qual è la cosa che lo rende così affascinante e così meraviglioso, eppure è tutto vero,il mare è davvero affascinante, ha un fascino tutto suo, il fascino che suscita in chi ci torna, come si torna in un luogo amato, un luogo di speranza, di dolore, di connessione, un luogo senza confini, senza muri, senza barriere, una cosa immensa, dove perdersi, ma è anche una cosa tanto sottile e profonda da poter entrare in ogni angolo fino a colmare il cuore, gli occhi, le orecchie e tutti i sensi della sua bellezza, una cosa tanto concreta da sentirla sulla pelle, una cosa tanto astratta da farsi pensiero, una cosa che può essere teatro di mille storie inventate, o luogo di battaglie, dove la storia ha continuato a scorrere, cercando di imprimere la sua impronta al mare, ma alla fine è il mare che ha impresso la sua impronta alla storia. Perché l’uomo può provare a decidere, a metterci delle barche, a far andare quella battaglia in un certo modo, a trovare quel tesoro, a portare a termine quel colpo di pirati di ogni dove e di ogni epoca, ma alla fine è il mare che decide, che sceglie se quella cosa deve andare in quel modo, se deve esserci quell’assalto, oppure quella nave deve afondare prima che possa fare qualcosa. è il mare che sceglie, sempre. Ed è il mare che parla, sempre, quando sussurra, quando urla, quando le cose che dice sono tanto dolci e quando le cose che dice sono aspre. Il mare può far paura, ma alla fine il mare è solo la speranza, l’unica via per arrivare a una vita migliore o a un obiettivo, il mare tanto immenso, che non conosci e che è talmente grande che la tua mente piccola si smarrisce. È lui che decide la vita oppure sceglie la morte. Ma tu, se cerchi una vita migliore, lo sai che cosa può succedere, che può succedere l’imprevedibile, che puoi rischiare moltissimo, ma ci provi, perché il mare invita sempre a provarci, con la sua assenza di limiti, il mare ti spinge a provarci sempre, a fidarsi di lui e ad affidarsi a lui. Il mare è l’amico più affidabile, ma a volte può anche diventare il più indisponente degli avversari, però mai nemico. Il mare è a volte normale, quotidiano, dove spostarsi, in una giornata qualsiasi, nei luoghi che ci si affacciano direttamente, altre volte luogo misterioso di mille avventure vere o inventate, altre volte ponte per arrivare dall’altra parte e ricostruirsi una vita partendo da lui, un luogo che non ha una radice specifica, unica, ma ha tante radici, il mare non è mai circoscritto, anche quando si chiama in un certo modo, in realtà, è sempre immenso, è sempre universale, non conosce le distinzioni, le discriminazioni, i pregiudizi. Nel mare sfuma tutto, eppure nel mare è anche tutto più chiaro. Il mare, il nostro mare, il mare dell’umanità che non potrebbe vivere senza il suo incanto, senza il suo fascino, il mare che è fonte inesauribile di ispirazione di storie, racconti, canzoni, il mare da fuori, dall’esterno, di lato,quando lo guardi sulla spiaggia, il mare che puoi guardare da dentro, su un’isola, oppure su una barca, qualsiasi essa sia, dal semplice pedalò alla più enorme delle navi da crociera, il mare che sfiori piano e ti abbraccia quando nuoti, il mare che, se non stai attento, ti porta a largo, il mare che ti conduce a riva, il mare che nasconde la vita al suo interno e a volte la lascia emergere, il mare che puoi provare a conoscere, fino ad arrivare ai fondali, a immergerti nella sua vastità e a tornare, a terra, con qualcosa in più. Il mare dà sempre qualcosa in più, dona sempre tutto, arricchisce, ti fa capire ciò che non avevi mai capito, ti fa scoprire la tua umana fragilità e piccolezza davanti alla sua grandezza, ma anche la tua umana forza, quando ti mette alla prova e tu ne esci. Il mare, che ti ruba il cuore e ti restituisce l’anima più completa di prima, più consapevole dopo averlo contemplato. Il mare che tante volte Ermal Meta ha detto di amare moltissimo, perché è capace davvero di metterlo in pausa, di prendersi tutti i pensieri e di restituirli sotto un’altra veste, rinnovata. Il mare può far riflettere, può insegnare, può raccontare storie, può stravolgere vite, può scardinare equilibri. Forse davvero del mare non si direbbe mai abbastanza. Per parlare del mare non si citerebbero mai abbastanza libri e abbastanza storie, tuttavia tutti quei libri e tutte quelle storie, per quanto raccontino magari il mare da diverse prospettive, sono tutti ugualmente consapevoli della vastità della sua essenza e, in tutti i casi, contengono la sua indomita e indomabile bellezza, la sua bellezza ribelle, eterna, che è sempre lì e si nutre anche delle cose meno belle, per cui chiunque altro, meno bello, meno immenso, meno suggestivo, non lo perdoneresti, ma il mare, sì, il mare richiama con la sua voce e, quando lo hai trovato, non puoi lasciarlo andare, qualsiasi cosa ti abbia fatto o abbia fatto. Il mare può ferire, ma è capace di lenirle anche quelle ferite. Il mare può essere crudele, ma può anche farla dimenticare e/o farla perdonare quella crudeltà, con la sua dolcezza. E con la sua insostituibile, insuperabile, forse davvero indescrivibile, insondabile, inspiegabile, ma presente e reale bellezza. Il mare che viene cantato da ogni luogo, che diventa tante cose di ogni epoca e che viene contemplato tanto da Oriente,quanto da Occidente. Il mare, dove è difficile trovarsi, ma dove ci si può orientare con le stelle e anche gli strumenti che ci sono bisogna imparare a usarli o non servono a niente. Il mare è il luogo in cui la natura parla molto di più che altrove, in cui fa sentire la sua voce e ci dice che come devono andare le cose le decide lui. E noi non possiamo che fidarci, affidarci a lui e continuare a scrivere, a dire e a contemplare, da tutte le angolazioni da cui lo guardiamo, che lo ameremo sempre, qualsiasi cosa accada e che troveremo ancora una volta la forza di ricominciare sempre, perché, se si fallisce una volta, si può tentare, tentare, tentare, finché non ci si riesce. Il mare, è vero, a volte una seconda possibilità non la concede, tuttavia ci dice che bisogna sempre crederci e, quando qualcuno non ce l’ha fatta, qualcun altro ce la può fare e quel qualcuno che non c’è riuscito può e deve essere raccontato, narrato, si può parlare della sua storia, che il mare ha deciso di custodire nel suo fondale, senza restituire mai il corpo di chi ha perso la vita, a volte sì, ma lasciando a chi resta il racconto di chi è passato di lì, in qualche modo, anche con la sola fantasia di chi magari lo trova, ciò che poteva essere e che, sicuramente, il mare, dopo tutto e nonostante tutto, lo ha amato ancora e lo ama anche nel luogo in cui si trova. Il mare del cielo più limpido e aperto, senza ostacoli, il mare dei fondali nascosti, il mare delle isole sperdute, il mare degli spostamenti di tutti i giorni, come potrebbe essere a Venezia e a Istanbul, il mare dei viaggi della speranza e della fortuna, il mare delle speranze, il mare, semplicemente il mare che,oggi, qui è il protagonista assoluto, che è tornato tante volte in questa rubrica e che questo mese si concentra su di lui, per ricordare libri già nominati o per scoprire libri nuovi, che, in qualsiasi modo lo facciano, fanno una cosa, raccontano la sua storia, perché anche il mare, che ha tante storie, ha una sua storia ed è la storia di chi è troppo perfetto, troppo grande, è troppe cose da esserne una sola, da non essere amato. Il mare che tante volte è stato teatro delle mie stesse storie. Il mare che è il vero protagonista de “L’ultimo dono prima di morire”, il mio primo libro, che è presente anche quando non viene direttamente nominato, il luogo che Sara guarda fin dall’inizio, il mare che le porta l’amore, una storia che attraversa le generazioni e che passa sempre per il mare, trasportando vite e sogni, prima di Fahdi e di Ali, poi di Aisha, ma che influenza anche la vita di Pedro e di Masuud e, in un modo più o meno diretto, di tutti i personaggi e di tutti i loro due mondi, Oriente e Occidente, che sono uniti anzitutto attraverso di lui. Il mare che è protagonista anche del libro di cui ho parlato qualche mese fa, “Cry out for justice – Gridare giustizia” di Alessandra Cossa, la storia meravigliosa dei Corsairs Claimers, che cercano di combattere le ingiustizie e difendere i più deboli. Il mare degli scontri, delle tempeste, delle avventure. Il mare dei pirati più famosi della letteratura. Il mare di Sandokan di Emilio Salgari, prima di tutto in “Le tigri di Mompracem”, che persegue la sua vendetta, cadendo sempre in piedi, affascinando con mille avventure con il pericolo sempre in agguato, dando vita a una di quelle storie, la sua in generale e soprattutto la sua storia d’amore con Marianna, la Perla di Labuan, che restano nel cuore e diventano leggenda. Il mare di un altro pirata famoso, Corto Maltese, che appare per la prima volta (e io conosco per la prima volta da vicino) ne “Una ballata del mare salato” di Hugo Pratt, eroe non convenzionale, spirito libero, senza regole e senza responsabilità, che insegue l’avventura e trova realizzazione alla sua vita e alla sua anima proprio nel mare, elemento privilegiato, che si sposa perfettamente con la sua essenza, con la sua sete di conoscenza e di scoperta, con il suo cuore pronto sempre ad aiutare i più deboli e con la sua sottilissima ironia che lo rende capace di trovare sempre il lato divertente delle situazioni. Il mare de “La spiaggia infuocata” di Wilbur Smith, limpidissimo, tranquillo, in un viaggio che è molto importante per Centaine, verso la terra del suo amato Michael, che diventa di colpo avventuroso e il silenzio viene squarciato da un sottomarino tedesco che, per errore, bombarda la nave dove viaggia la ragazza insieme alla fedele domestica Anna, che le ha fatto da madre,perché non aveva visto il simbolo della Croce Rossa e a questo punto per la protagonista il mare diventa un luogo dove sopravvivere, dove lottare con tutte le forze per farcela, per restare a galla prima, per sfuggire a uno squalo poi e soltanto dopo, finalmente, per giungere a terra, su quella spiaggia infuocata, dove vivrà ancora molte avventure. Il mare dei viaggi della speranza, verso una vita migliore, quando riescono nonostante le difficoltà come in “Ulisse da Baghdad” di Eric-Emmanuel Schmitt e quando falliscono, davanti agli occhi dell’Occidente, come in “Non dirmi che hai paura” di Giuseppe Catozzella. Il mare dei racconti di Elif Shafak, che è elemento quotidiano, di spostamento, di viaggio, dell’occasione di andare da qualche parte o di cominciare a guardarsi dentro di sé. Il mare di “Latte nero”, perché è sul mare che Elif si trova quando scrive su un foglio le sue regole di vita, mentre è seduta accanto a una madre, convinta che lei non lo sarà mai, per poi scoprire che invece può esserlo pure lei nel suo modo di essere particolare, molto diverso da quella donna che incontrò quel giorno, ma sempre meraviglioso. Il mare di tutti i suoi personaggi che si muovono e si spostano a Istanbul, anche Asya e Armanoush, la ragazza turca e la ragazza armena, amiche in “La bastarda di Istanbul” e tutti i particolari personaggi de “Il palazzo delle pulci”, tra passato e presente. Il mare che porta Jahan de “La città ai confini del cielo” fino a Istanbul, lui che, per tutta la sua vita, si spaccia per indiano, per poi finire in India nella conclusione; egli viaggia sempre in quel mare, il mare che lo porta fino alla capitale dell’Impero, il mare che gli fa incontrare il suo principale nemico e tormento, il capitano Garet Testamatta, che volta sempre le spalle e la faccia a chiunque, prima al papa, poi al sultano, nei suoi continui capovolgimenti che solo sul mare possono davvero avvenire, ma anche il mare che gli fa incontrare per la prima volta proprio quella città felice e crudele insieme, che ha la sua meraviglia nel fatto che è tra due mondi e che ha un ponte (sul mare) che collega due continenti, la città dai sette colli, e soprattutto Chota, l’elefante bianco, il suo più caro amico, conosciuto per caso su una nave e mai più lasciato. Il mare di un’altra storia, di un altro libro che ho conosciuto da poco, il mare di “Resta con me” di Tami Oldham Ashcraft, che, nell’immensità dell’oceano, che ha sempre amato, ha conosciuto l’amore come il dolore profondissimo di perdere chi ami, che racconta la sua storia (vera) di lotta, di resilienza, che ci fa capire quanto siamo piccoli, quanto possiamo essere grandi e quanto il mare, se toglie qualcosa, specchio di un destino inspiegabile, che a volte possiamo cambiare e altre volte può cambiarci lui, che le ha portato via il suo Richard, ma le ha dato la forza di farcela, di andare avanti, fino all’inverosimile, fino all’impresa, fino a essere l’unica sopravvissuta a un uragano, dove la velocità del vento e l’altezza delle onde fanno paura: 259 chilometri orari il vento (nel libro c’è la misurazione in nodi, 140), 15 metri le onde. Il mare che da lei sarà sempre e comunque amato, perché, quando tornerà sulla terra, sentirà ancora la mancanza e il richiamo di quello stesso mare e diversi anni dopo si troverà di nuovo al timone, mentre fa un giretto intorno all’isola, in cui vive, con suo marito e le sue figlie. Il mare che le ha tolto il suo amato e le ha fatto conoscere il dolore, le ha fatto conoscere insieme anche la forza di rialzarsi, che le ha fatto provare di tutto, paura, a volte anche odio, ma solo dichiarato, mai davvero provato, speranza, sensi di colpa, ma alla fine, davvero, tanto amore, perché è il luogo più insicuro dove può succedere di tutto, ma è anche il luogo in cui si sente pienamente a casa e non smetterà mai di esserci legata, tanto che vivrà in un’isola, anche se magari non viaggerà come faceva una volta. Il mare di tutte le isole che vengono scoperte lungo questi racconti, il mare dove ci si può perdere, dove ci si può ritrovare, il mare che ci sconvolge, il mare che ci lascia senza fiato davanti alla sua grandezza e il mare che quel fiato ce lo fa ritrovare, perché, se respiri nella sua aria, respiri più a fondo e senti i polmoni spalancarsi al suo odore insostituibile, con gli occhi che si riempiono delle sue sfumature e le orecchie che risuonano, insieme al petto, del suo silenzioso, infinito e costante sciabordare delle onde che sfiorano la nostra pelle e accarezzano, dicendole che c’è ancora, tutta la terra. Il mare che, in tutte queste storie, si chiama in diversi modi, a volte è Mar Mediterraneo, altre volte Oceano Atlantico, Oceano Indiano oppure Oceano Pacifico e altre volte è un incontro tra due mari, come per Istanbul, tra il Mar Nero e il Mar di Marmara, ma che, comunque si chiami e qualsiasi avventura racconti, è sempre incredibilmente uguale a se stesso: immenso, totale, bellissimo.

© Arianna Frappini,

Intellettuale orientalista con particolare interesse per la cultura araba

Riproduzione riservata

Fonti:

Definizione dal vocabolario sul Web

Libri di scuola

Ricordi personali

Varie interviste di Ermal Meta

“L’ultimo dono prima di morire”, Arianna Frappini, Gruppo Albatros il Filo, Roma, 2020, ISBN: 9788878422506

“Cry out for justice – Gridare giustizia”, Alessandra Cossa, Il Trampolino Publisher, prima edizione 2020, per l’acquisto visitare il sito www.iskoob.com

“Le tigri di Mompracem”, Emilio Salgari, Fabbri Editori, Milano, 1968

“Corto Maltese. Una ballata del mare salato”, Hugo Pratt, Einaudi, Torino, 1995, ISBN: 8806138456

“La spiaggia infuocata”, Wilbur Smith, Longanesi & C, Milano, 1986, ISBN 9788830434974

“Ulisse da Baghdad”, Eric-Emmanuel Schmitt, Edizioni e/o, Roma, 2010, ISBN: 9788876418952

“Non dirmi che hai paura”, Giuseppe Catozzella, Feltrinelli, Milano, 2014, ISBN: 9788807885747

“Latte nero”, Elif Shafak, Rizzoli, Milano, 2010, ISBN: 9788817045629

“La bastarda di Istanbul”, Elif Shafak, Rizzoli, Milano, 2007, ISBN: 9788848603850

“Il palazzo delle pulci”, Elif Shafak, Rizzoli, Milano, 2008, ISBN: 9788846210302

“La città ai confini del cielo”, Elif Shafak, Rizzoli, Milano, 2014,, ISBN: 9788817082396

“Resta con me”, Tami Oldham Ashcraft, HarperCollins Italia, Milano, 2018,ISBN: 9788869053641

Foto scattata dalla madre dell’autrice

Sei anni di Libri senza pregiudizi: il 2021 delle speranze, delle conferme e delle ripartenze

Rieccoci. Ed è passato un anno. È assurdo constatare come, ancora una volta, gli anni volino, come il tempo passi velocemente. Mi pare passato un solo istante dal precedente articolo, dall’altro bilancio, dall’altro racconto, da quello che scrivevo solo un anno fa e, adesso, un anno dopo, come ogni anno succede, è cambiato qualcosa, mentre quasi tutto è restato, giustamente, come prima. Perché nessun cambiamento è possibile, se non si ha una base solida da cui partire. E, dopo quello che abbiamo vissuto, dovremmo avere una base diversa, una base un po’ più consapevole di tante cose, più cosciente dei nostri limiti e tuttavia dei nostri meriti, di cosa significa, come nazione, inciampare e ricominciare ad alzarsi. Mma la gente, in conclusione, pare non aver capito proprio niente, imparato proprio niente. Sembra che dietro si porti solo le abitudini e le regole e poco o nulla dello spirito solidale che ci ha animati nei primi mesi di ciò che è stato, che ancora è, ma che, da quest’anno, abbiamo cominciato un po’ a lasciarci alle spalle. Ed è giusto, che diamine. Certo che è giusto lasciarsi tutto alle spalle, provare a ripartire, a andare di nuovo in giro, cominciare a riprogettare il futuro, le uscite, i concerti. E io sono la prima a farlo, sono la prima a essere felice di poter pensare che sono a un passo, che ora pare davvero piccolo, dal momento incredibile in cui tornerò sotto il palco di Ermal. E accidenti se non vedo l’ora! Non vedo l’ora che solo a dirlo mi si riempiono gli occhi di lacrime e mi pare di sognare, di sognare, di avere un po’ più una certezza nella confusione e nell’incertezza che questo momento ci ha appiccicato addosso. Certo, certo che è giusto così, scrollarsi un po’ le spalle, cercare di sollevarsi i pesi dal cuore, che abbiamo avuto, cercare di superare le paure, di tornare alla normalità. Perché, dopo tutto, un po’ di paura ce l’ha lasciata questo periodo ed è assurdo pensare di doversi riabituare alla normalità. È assurdo pensare che ciò che per noi una volta era scontato, ciò che era ovvio, ora abbia una così grande importanza e sia diventato di colpo fondamentale. È giusto lottare per uscire, anche se è molto più semplice stare dentro casa, almeno per me, nell’angolo protetto, ma, se è possibile ricominciare, quest’anno ce lo ha detto, ce lo ha mostrato, ce lo ha fatto vedere: è possibile ricominciare. Senza, però, tuttavia, dimenticare. Non possiamo permetterci di dimenticare ciò che è stato, non possiamo. E non significa limitare la felicità con la tristezza, con l’angoscia, con la paura. Significa ciò che scrivevo più o meno un anno fa, nel pieno dell’emergenza, che, quando sarebbe tornato il sole, che quest’anno abbiamo visto spuntare non solo ogni mattina, ma anche ogni ripartenza, avremmo dovuto ricordare il buio, non per rattristarci, ma solo per dare più valore alla luce. Per ricordare che niente è scontato, che dobbiamo apprezzare ogni cosa, che potrebbe venire a mancare e non potevamo immaginare mai che potesse accadere, e dobbiamo scoprire che, non è ovvio, la felicità è davvero nelle piccole cose, anche nelle cose minuscole, anche nello stare in casa, sì, ma non perché si dovrebbe o è meglio così, ma solo perché è una scelta e la scelta alternativa non ha più nessun ostacolo, nessuna paura e nessuna limitazione. Ci vorrà ancora un po’ di tempo perché uscire o rimanere in casa siano equivalenti nella disposizione del nostro spirito, ma, almeno da quest’anno, le due azioni sono ridiventate un po’ più possibili, anzi, quasi del tutto possibili, almeno per le regole, che hanno cominciato a esserci di meno e stiamo vincendo la battaglia contro il Covid con il vaccino, il solo mezzo efficace in questi casi, ma non è ancora uguale dal punto di vista dello spirito, della disposizione, della coscienza, perché, come dicevo, quest’anno, se ci ha insegnato a ripartire, a ricominciare, a gioire, se ci ha riempito gli occhi di felicità, di vittoria, di orgoglio, di commozione, se ci ha riempito i sogni di nuovi sogni reali, ci ha anche insegnato quanto è bella e difficile la normalità. Quanto è complicato poterci tornare e quanto, da oggi in poi, dovremo ancora riabituarci all’ovvio, allo scontato, che poi ovvio e scontato non è più a ciò che prima non aveva molta importanza, il semplice uscire di casa e incontrare le persone. Sì, stiamo migliorando. La situazione è radicalmente cambiata rispetto a un anno fa. Un anno fa, già. Un anno fa, forse allora non ne ero del tutto consapevole, ma iniziava la seconda ondata. E sarebbe stata molto peggiore della prima, arrivando a numeri, che sono persone, di contagi e di morti per Covid assai preoccupanti. Me li ricordo benissimo, come fosse accaduto ieri, che siamo arrivati a sfiorare i 40.000 contagi in un giorno, numeri spaventosi, e non è vero che i numeri non hanno nessuna importanza. Sono d’accordo, eccome se sono d’accordo, con chi dice che l’informazione non è stata all’altezza della situazione, che i giornali, i telegiornali, figuriamoci poi i Social hanno parlato di quello che è successo con una confusione assurda in un’accozzaglia di notizie pseudoscientifiche, come se tutti quanti, di colpo, fossero diventati esperti virologi o tutti quanti membri del Comitato tecnico-scientifico (CTS), come se tutti potessero esprimere la propria opinione su argomenti di cui non sapevano niente, è vero. Sono d’accordo con chi dice che è stato creato un allarmismo fuori controllo, tuttavia, i numeri c’erano, erano reali, erano persone che soffrivano, persone che morivano, persone che dovevano affrontare questo male che abbiamo imparato a conoscere, nostro malgrado, perché mica ci tenevamo a fare la sua conoscenza. Ma, ora che purtroppo lo conosciamo, ci tocca anche conviverci, ci tocca constatare i danni che ha fatto, e sono stati molti, moltissimi. Perché quei numeri erano vite, vite sconvolte, vite di colpo complicate, a volte vite spezzate. E un anno fa, forse nello scorso articolo non ne avevo ancora la coscienza, ma attraversavamo la seconda ondata e ci sono stati momenti davvero brutti e sconfortanti, talmente tanto che poi ti chiedi come è possibile che la gente sia rimasta sempre la stessa, com’è possibile ora che ci sia tanto odio ancora in giro, tanta cattiveria, quando questo periodo doveva insegnarci qualcosa: non solo le regole, la paura, non solo un nuovo modo di vivere e di concepire le cose, ma un nuovo modo di considerare le persone. Dovevamo essere spiritualmente più vicini, dato che eravamo fisicamente più lontani. Avremo dovuto imparare a essere più solidali. Certo, mica è tanto facile vivere accanto alle persone, che diventano un po’ una minaccia, delle quali hai un po’ paura di avvicinarti troppo, tuttavia, dovevamo provarci. Dovevamo provare a essere più solidali, anche da lontano, dovevamo essere l’Italia che siamo stati nei primi mesi, sì, quella dei canti sui balconi, delle luci sulle finestre, dei tricolori ovunque, dell’inno nazionale dappertutto. Sì, dovevamo essere l’Italia della prima ondata, dovevamo esserlo sempre, non solo in certi momenti di particolare difficoltà o di particolare felicità, ma dovevamo imparare a esserlo ogni giorno e non solo apparentemente a qualche livello, non solo per un giorno, per una settimana, per un mese, ma per sempre. Questo periodo doveva insegnarci a essere persone migliori, una nazione migliore, consapevole dei suoi limiti, d’accordo, ma anche dei suoi pregi, di quanto, accidenti, conta avere un sistema sanitario gratuito e aperto a tutti, e mica l’abbiamo ancora capito quanto siamo fortunati per questo. Ecco, di tutto quello che potevamo capire, questa era la cosa più importante. E la seconda era investire nella ricerca, perché, da queste situazioni, e si è visto, può salvare solo la ricerca scientifica e, nello specifico, la scoperta del vaccino. Perché, ed è bene che lo ricordino tutti, se oggi, qui, la situazione è molto migliore rispetto a un anno fa, è soltanto grazie alla vaccinazione di massa. E questo è un dato di fatto. Possono dire tutto quello che vogliono, io non sono una scienziata, né pretendo di esserlo, ma mi limito a constatare la realtà di questo anno, come sono radicalmente cambiate le cose e che, se io potrò andare ai concerti di Ermal a marzo, se io potrò uscire, se noi potremo fare qualsiasi cosa, sarà solo ed esclusivamente grazie al vaccino. Al vaccino che io, in primis, mi sono fatta. E i mesi che ora sono un po’ già passato, per me, sono stati davvero tante cose, talmente tante cose, che poi ci penso e mica credo possibile che siano avvenute tutte quante in un anno, che siano davvero accadute, così come io le ricordo, in uno spazio che appare tanto piccolo da qui, invece è tanto grande. E così i ricordi si intrecciano, si confondono, si susseguono, forse senz’ordine, ma li tengo tutti qui, nel cuore, ogni istante, ogni momento, ogni attimo, quelli belli, quelli brutti, quelli emozionanti, quelli incredibili, quei secondi eterni per capire di essere davvero, di nuovo, a Roma. Sì, è questa la prima immagine che voglio attribuire a questo bilancio, a questo incredibile bilancio, che ha davvero dell’incredibile, perché ora, da quel primo articolo, sono passati sei anni e sei anni sono tanti, sono una vita, un pezzo di vita, che continua a scorrere, un pezzo di vita che raccoglie le impressioni, le sensazioni, i ricordi, le emozioni. La prima è questa. Sono a Roma, siamo a Roma. È un giorno di novembre, è il 21 novembre 2020, la situazione è quella che è, pessima, me lo ricordo quanto è stata sudata quell’intervista, quanto è stato sudato quel giorno, quanto è stato sudato quel viaggio. E fino all’ultimo, collegato a una realtà che pareva non lasciare molte scelte. E ha rischiato di saltare tutto a pochi giorni dalla sospiratissima intervista, perché chi doveva accompagnare me e mia madre a Roma non poteva lavorare a causa della maledettissima zona arancione. Ma niente è impossibile, quando ci sono di mezzo i sogni. E certe cose, che sembrano impossibili a tutti, che sarebbero impossibili in ogni caso, da tutti i punti di vista, da qualsiasi angolazione le si guardi, diventano di colpo reali e realizzabili solo perché ci credi, solo perché sogni. E perché i sogni non si possono fermare. Non ce l’ha fatta neppure il Covid. Può averci tolto molte cose, precluso tantissime altre, ma i sogni, no. Sui sogni non ha avuto alcun potere, non sui sogni veri, non sui sogni in cui abbiamo creduto, in cui ho creduto , non sul mio sogno che ha reso il 2020 un anno bello, che ha dato senso a un anno che sembrava non avere senso. E così, dopo che è stata una luce che ha dato senso a un altro anno con poco senso, stavolta dal punto di vista personale, come il 2017, in cui è nato, e dopo avermi tenuto occupata e dato una mano nel momento difficile dell’anno scorso, il mio libro, “L’ultimo dono prima di morire”, mi ha regalato di nuovo qualcosa, qualcosa di bellissimo, di imprevisto, di incredibile, che sarebbe stato improbabile: non avevamo l’autista a pochissimi giorni dal 21 novembre, avevamo la zona arancione in Umbria e nella nostra città, Gualdo Tadino, la situazione era preoccupante. Ricordo benissimo che ne parlavamo quel giorno e, a posteriori, quel numero di cui parlavamo era il peggiore di tutti i mesi che erano e sono passati: quel 21 novembre riportavamo 218 contagi in una città di poco meno di quindicimila abitanti, non sono affatto pochi. Dunque, la situazione era quello che era e non è che lasciava un granché di possibilità. Tuttavia, questo sogno era troppo bello, troppo reale, troppo sudato, troppo conquistato faticosamente, per non potersi realizzare. E grazie alla mia amica Barbara, che non ringrazierò mai abbastanza, ce l’ho fatta. Ho trovato un taxi che poteva portarci a Roma, e chi se ne frega del prezzo. I sogni un prezzo non ce l’hanno. E quel sogno doveva esserci, dovevamo esserci: io, con un vestito,e infati e infatti non si sa perché non è nevicato quel giorno, mia madre, l’autista del taxi di Perugia che è venuto a prenderci a Gualdo, autocertificazione per gli spostamenti alla mano e via, a Roma, in due ore, anche di meno. E noi che eravamo partiti quasi con un’ora di anticipo, perché pensi, e che cavolo, il traffico di Roma! Niente! Mai andata a Roma con un traffico così scarso, con le file che scorrevano con una facilità quasi inverosimile, della serie non tutti i mali vengono per nuocere. E abbiamo aspettato quasi un’ora in macchina, poi, finalmente, dentro, negli studi di Caos Film, un piccolo e grande spazio di normalità, in una situazione complicatissima. Un altro sprazzo di luce nel buio. Ed è stato di nuovo il mio libro. Non dimenticherò mai le emozioni di quel giorno, io là, seduta su una poltrona minuscola, il microfono in mano, l’emozione nel cuore. E poca gente vicino, ma tutta quella che serviva. Mia madre, gli addetti alla telecamera e l’intervistatore. È stato bellissimo. Uno di quei giorni bellissimi, che mi porterò per sempre nel cuore. E sarebbe stato incredibile in qualsiasi momento fosse avvenuto, ma in quel momento, se possibile, aveva ancora più valore e, in quelle risposte emozionate, c’era tutto. C’era l’anima felice, cera il cuore che metto sempre in ogni riga di ogni cosa che scrivo, c’era la passione, c’era la dedizione, c’era il percorso che mi ha portata lì, alla pubblicazione e a una delle prime interviste, sicuramente la prima che sarebbe andata in piattaforme enormi come Sky e poi Youtube, c’era anche tutta la fatica, tutto il sudore di quel viaggio. C’era tutto, c’ero io. In quelle risposte, dette con tutto il cuore, c’ero io. Sono stati i minuti più belli della mia vita. E sono state bellissime tutte, sia quella più lunga nel programma Se scrivendo, sia la simpatica, rapidissima intervista di Dieci libri, in cui le domande erano stile iene. È stato bellissimo semplicemente, e quel 21 novembre ha riempito e ha illuminato un inverno strano, un momento difficile per tutti, un momento complicato per tutti, un momento in cui ho pensato che davvero niente è impossibile se ci credi. Se ci credi, tutto diventa possibile. Io ci ho creduto e quell’intervista a Roma è stata possibile, ma, se solo ci avessi creduto anche poco di meno, be’, non ce l’avrei fatta. Invece, sì, ce l’ho fatta. Ci sono stata, mi hanno fatto le domande, le ho risposte. Ho compiuto il viaggio del ritorno con gli occhi commossi e il cuore colmo di emozione, non vedendo l’ora che arrivasse il momento che è giunto due mesi dopo: il momento della trasmissione su Sky e su Radio Galileo e, qualche tempo dopo, anche su Youtube. Ed è stato davvero bellissimo riascoltarmi. E mi tocca dire che sono andata anche piuttosto bene, quello che tocca dirlo tocca dirlo. E io, dopo tutto, tra i pregi che credo di avere, ho sempre detto di non avere la modestia. A che serve poi la modestia? A cosa serve sottovalutarsi? A quello ci pensano gli altri, perché dovresti farlo pure tu? Tu devi credere in te, devi avere anche un tantino di presunzione, anche di superbia, che Dante annoverava tra i sette vizi capitali, ma ho sempre pensato che la superbia fosse un pregio, non un peccato. Può anche darsi che questo discorso sia anche un mio modo di far apparire come un pregio un mio difetto, cosa non del tutto improbabile, però, io sono convinta che è così. Ma attenzione con superbia, non intendo egoismo, no. Essere presuntuosi o superbi per me non significa calpestare gli altri, no, svalutare gli altri o valutare gli altri malissimo, se paragonati a noi. No, no. Significa solo riconoscere i propri meriti, il proprio valore, le proprie capacità e, se una cosa l’hai fatta bene, sì, l’hai fatta bene punto e basta. E ammetterlo non è da egoisti, ammetterlo, anzi, è da corretti, anche nei confronti degli altri, per onestà intellettuale nei loro confronti, ma soprattutto per amore nei confronti di se stessi. L’autostima è una cosa importante. E la mia autostima è sempre stata altissima, sempre. E, tra gli errori che sicuramente anche io ho fatto, non c’è mai stato quello di sottovalutarmi, e menomale. Dunque, come vi dicevo, sono andata piuttosto bene nelle interviste e sono soddisfatta del risultato finale. E la cosa davvero bellissima non sono state solo le risposte azzeccate, ma l’emozione che traspirava dalla voce. Era una voce che parlava, anche abbastanza fluidamente, ma con quel pizzico di emozione che traspariva in ogni sillaba, e menomale. Perché le cose emozionate sono ancora più belle e perché non mi sarebbero piaciute queste interviste se non si fosse capito cosa c’è dentro: tutto, semplicemente, né più, né meno. La passione di una vita, la mia scrittura, il mio libro, i miei sogni, anche la fatica, le speranze, le conferme e le ripartenze. Dice che i titoli, è risaputo, devono riassumere (se vogliamo dire riassumere, diciamo riassumere, ma questo verbo non mi piace un granché) il contenuto del libro, dell’articolo, di qualsiasi cosa a cui si abbinano. E questo articolo si intitola proprio con queste tre parole: speranze, conferme e ripartenze. Ed è quello che è stato il 2021, in realtà fine 2020 inizio 2021. E già erano tutte lì, in quell’intervista, in quel giorno indimenticabile e nelle emozioni indimenticabili che un anno così strano eppure così bello mi ha regalato e mi ha dato ancora, facendolo anche attraverso il libro che ha dato un senso al tempo che scorre e persino all’anno più assurdo che il mondo ha vissuto. Ha reso davvero bello un anno che, altrimenti, avrebbe potuto essere assai brutto, anche se, e questo va detto, per me il 2020 non poteva raggiungere il livello del 2017. È vero, allora il mondo non ha dovuto affrontare niente, ma io sì, e ci sono state pochissime cose che hanno dato un senso a quell’anno e la principale era proprio il libro, “L’ultimo dono prima di morire”, che ho scritto nell’estate, in dieci giorni, del 2017. Il 2020 è stato quello che è stato, nessuno dice che è stato un anno fantastico, anzi, è stato anche brutto. Ma le cose purtroppo non possono andare sempre bene ed è quando le cose vanno male che capisci su chi e su cosa puoi contare. E io nel 2020 avevo un sacco di cose: l’ispirazione, che nel momento più duro non è mai mancata, il libro che proprio allora muoveva i suoi primi passi e dovermi occupare della pubblicazione, Dio mio, che giorni intensi e faticosi, mi ha aiutata moltissimo, le tre presentazioni e un’intervista in quelle condizioni erano anche molto più di quanto osavo immaginare. E poi, ancora una volta, Ermal. E nel 2017 Ermal per me non c’era ancora. Per fortuna ho incrociato i suoi passi nel 2018 e, se non l’avessi incontrato, non sarei quella che sono oggi e non potrei dirmi di nuovo felice, perché, se non ci fosse stato lui, io non sarei mai tornata a fidarmi degli altri e del mondo. Invece, lui mi ha detto guarda che il mondo è bellissimo e il mondo è davvero bellissimo, come la mia vita è davvero bellissima se c’è lui. E anche i momenti più duri, con le mie passioni possono diventare belli, possono avere senso e, quando l’anno finisce, mentre tutti, ma proprio tutti facevano bilanci supernegativi, io ero lì, a salutarlo. Non a dispiacermene, gli anni passano e quell’anno anche doveva finire, ma dovevo ringraziarlo, perché io gli devo molto e non dimenticherò mai che io, il mio primo libro, l’ho pubblicato nel 2020, non in un altro anno. E non quest’anno, anche se sarebbe stato più semplice fare tante cose, non sarebbe stato lo stesso. Quest’anno, poi, mica aveva tanto bisogno di essere risollevato, era già incredibile e speciale del suo, con l’aria di ripartenza che si respirava ovunque. Non aveva bisogno di risollevarsi agli occhi di nessuno, neppure dal mio punto di vista, l’altro, il 2020, invece, sì. E, anche se non ho potuto fare molte presentazioni come avevo sempre sognato, è andata bene così e sono felicissima che il mio primo libro è datato 2020. E il secondo? Eh, poi ci arriviamo, anche al secondo, un passo per volta. Dicevo appunto che il 2020 è finito e le feste di Natale, di capodanno, ecc. sono state assai diverse dal solito, come diversi sono stati i compleanni prima di mia nipote, poi il mio a febbraio: in tutte le occasioni eravamo in cinque, al mio compleanno, poi, in realtà, addirittura in quattro, ma non posso dire che sono state brutte feste, anzi. Forse, fuori dalla confusione e dai ritmi frenetici del solito, sono state anche bellissime, forse quelle che ricorderò con una certa emozione, che ci hanno fatto riscoprire la dimensione semplice di stare in famiglia, perché non serve molto per essere felici, basta essere insieme e stare bene. E i regali non sono mancati. E neppure il cibo. Anzi, io penso proprio che non abbiamo mai mangiato tanto come queste feste, più che in tutte quelle che ricordo, una cosa inverosimile, veramente. E, pensando a quelle feste, mi viene da dire che forse io qualcosa ho imparato. Il mondo non molto, la gente in genere non particolarmente, i Social ma per carità. Ma io, nella mia piccola dimensione personale, qualcosa penso di averlo imparato, di ricordare ancora quel buio, per dare più valore alla luce e non è affatto scontato dire che la felicità è nelle cose semplici, ma la felicità è davvero nelle cose semplici. E, mentre le feste mi riempivano il cuore di felicità e l’anno volgeva a termine, una notizia ha spezzato la routine: Ermal a Sanremo! E ogni giorno del nuovo anno, da gennaio, febbraio e poi marzo è stata un’attesa emozionata, continua, vissuta tra i commenti letti e il testo che non volevo assolutamente leggere prima di ascoltare la canzone. E gli articoli di inizio anno di Emozioni da lupi sono stati pervasi da quella tensione meravigliosa, da quell’ansia dell’attesa, quella più bella, di una cosa che non pensavamo di vivere ancora e che io, da lupa, vivo davvero per la prima volta. E mi ha fatto pensare che il buongiorno si vede dal mattino. Forse, mio padre non può dire lo stesso, perché a febbraio si è fratturato il tallone cadendo da una scala, scena abbastanza comica, in realtà, però, si è fatto anche piuttosto male ed è stato quasi un mese all’ospedale, non riuscendo a uscire per il giorno del mio compleanno. Ma mi ricordo che è uscito il 2 marzo, il giorno in cui, appunto, iniziava Sanremo, forse il Sanremo più atteso di sempre, anche se il più particolare. In questo Amadeus e Fiorello sono stati davvero straordinari: sono riusciti a fare cinque ore di spettacolo senza pubblico e lo hanno fatto in un modo incredibile. E che emozione, che emozione quei giorni! Veramente palpitanti, incredibili, da dimenticare il mondo intorno e da far esistere solo noi, Ermal e Sanremo. Le interviste, quante interviste, le attese, quante attese, le scalette, quante scalette, che confusione ed Ermal che canta sempre in orari improbabili. E poi finalmente “Un milione di cose da dirti”. Una canzone bellissima, una canzone dolcissima, una canzone d’amore, che ha accarezzato tutte le corde della nostra anima, facendo suonare tutte le emozioni del nostro cuore, mentre la pelle rabbrividiva all’altezza del suo falsetto, che veniva cullato dalla delicatezza della sua voce, delle sue parole, della sua musica, quasi solo piano e voce. Ed è stata una canzone che emoziona a ogni ascolto e che mi emoziona solo a pensarci, a nominare, a ricordare quel primo ascolto. E tutti gli ascolti successivi. E le classifiche. Le classifiche che davano Ermal primo fino alla quarta serata! E tocca anche dire che, sì, ci avevamo creduto. Io ci avevo creduto, con tutto il cuore, perché le cose a metà non si fanno e a forza di vedere primo, primo, primo ho pensato: vuoi vedere che Ermal vince Sanremo? E, ad alimentare ancora più emozione e tutte le lacrime di commozione che abbiamo versato quei giorni, la sua sublime interpretazione di “Caruso” nella serata delle cover, che ha vinto ancora una volta dopo quella del 2017 con “Amara terra mia”. E menomale che l’ha vinta. Perché la sua interpretazione era davvero qualcosa di incredibile, qualcosa che si può capire soltanto avendola ascoltata e vissuta, come si dovrebbe sempre fare con le sue canzoni. Le sue canzoni vanno ascoltate, vissute, respirate. E non basta mai. Perché le sue canzoni, come le sue cover, emozionano tanto la prima volta, come la milionesima. E finalmente lo abbiamo ascoltato non solo noi, ma anche altri, il giorno della finale, che ha cantato nella prima parte della scaletta, al quinto posto. E poi sappiamo tutti com’è andata. Quando l’abbiamo visto sul podio, ci abbiamo creduto ancora di più. E avevamo tipo il panico più assoluto nel corri, vota, muoviti, digita, con tutti i telefoni di casa. E, se era possibile, li avremmo anche inventati i telefoni. Cioè tipo non so a quanta gente ho scritto, guarda che volendo c’è Ermal da votare. Sono stati secondi davvero impressionanti, secondi velocissimi, cioè forse una ventina di minuti, ma non sono mai stati tanto corti come quelli. Della serie quando hai bisogno di tempo il tempo vola troppo velocemente. Il televoto si chiude troppo rapidamente. E le cose si svolgono in ritmi spasmodici, velocissimi, tutta l’emozione in pochi istanti, tutte le speranze in un momento, tutto quanto ridotto in un attimo ed Ermal è al terzo posto. Un grande risultato, che cosa vuoi dire al terzo posto di Sanremo? Ed Ermal ha partecipato a Sanremo un sacco di volte, ma nella categoria big tre volte e sono stati tre podi, un risultato immenso, un orgoglio incredibile, per una canzone davvero meravigliosa, che ha vinto il prestigiosissimo premio Giancarlo Bigazzi della miglior composizione musicale e anche il premio per il miglior videoclip e che è arrivata terza, e il terzo posto è un gran posto. Però, ho sempre detto che, scrivendo, non posso mentire, né celare qualcosa e quindi, in queste pagine, mentre ricordo un anno incredibile, davvero pieno di emozioni, di speranze, di conferme e di ripartenze, mi tocca scrivere che, sì, ci sono rimasta male. E che c’era anche un po’ di delusione, soprattutto per certi comportamenti in giro. La gente, poco corretta, nessuno accusa gli artisti per i fan che hanno, ci mancherebbe, pur di non far vincere Ermal ha confuso i codici della prima votazione. Ma noi non siamo come loro, per carità, noi siamo contenti di tutto e per tutti, i Maneskin sono anche stati bravi e hanno reso molto orgogliosa una nazione vincendo l’Eurovision, e che emozione anche quella sera, però, io come fan di Ermal speravo che Ermal vincesse e sinceramente, ancora a distanza di tutti questi mesi, un po’ male ci resto ancora e continuo a dire che, se non vinceva perché sarebbe stata presa comunque la decisione della vittoria della band romana in vista dell’Eurovision, il secondo posto per me era il suo. In realtà per me pure il primo, però, è andata così. Complimenti ai vincitori e a tutto il podio. E mi tocca dire anche questa: a me Fedez musicalmente non è mai piaciuto, quindi, quel suo secondo posto mi ci ha rotto un sacco, però, devo dire che umanamente l’ho rivalutato il primo maggio, con il suo discorso a sostegno dei diritti civili degli omosessuali, ha avuto il coraggio di dire apertamente le cose, anche di fare nomi, cognomi e Partiti, perché serve anche quello, avere il coraggio di dire le cose come stanno, esporsi politicamente. E non è assolutamente vero che gli artisti non devono intromettersi nella politica. La politica è vita. E anche l’arte è vita. L’arte non parla di cose astratte e astruse, ma parla anche e soprattutto del proprio tempo. E non puoi parlare dei tuoi tempi, senza parlare di politica e senza manifestare la tua idea politica. Un artista racconta la realtà, e, in questo racconto, c’è anche la politica, per forza. E poi, che diamine, l’artista un’idea politica sua ce l’ha. E pensate forse che una cosa tanto profonda, una convinzione tanto sentita, se quell’artista ce l’ha, non va a confluire nelle sue opere o in quello che dice e che fa? Secondo me, sì. E non lo dico solo da spettatrice, ma anche da scrittrice. Io nelle mie opere la mia posizione politica ce la metto e ci scommetto che l’avete capita pure voi, anche se io non la dicessi esplicitamente e la facessi capire solo tra le righe. Però io la scrivo anche esplicitamente, non mi vergogno mica: sono di Sinistra e un’antisalviniana di quelle convinte. Se vi sentite offesi da questa affermazione, sappiate che non era mia intenzione offendervi e lasciatevi dire che io non vi comprendo. Io dalle posizioni politiche diverse dalla mia non mi sento offesa, anzi, tanto meglio che ci sono, così possiamo confrontarci, non ci annoiamo e ogni tanto fa bene anche discutere di politica, cioè non è che faccia bene litigare, ma, quando si parla di quell’argomento, è quasi inevitabile che succeda. E, purché la cosa non degeneri, ben venga, quindi, se volete, ci incontriamo, virtualmente o comunque sia, e ne parliamo. Io rimarrò della mia idea, voi della vostra, ma almeno intanto potremmo dire di aver vissuto insieme la democrazia che i nostri predecessori si sono impegnati tanto a costruire e che noi abbiamo il dovere di difendere con la nostra vita quotidiana. E, a proposito ancora di musica, la meravigliosa musica di Ermal, che è stata ancora una volta una grandissima conferma e un punto di riferimento nella mia vita, finalmente è uscito il nuovo album, “Tribù urbana”. E per parlare di “Tribù urbana” non basterebbe l’articolo che ci ho scritto, tutte le cose che ho scritto, detto, pensato e neppure gli aggettivi che cercherò di scrivere in queste righe. Cos’è stato “Tribù urbana”? Diciamola così: a me non piace fare classifiche e figurati se riesco a fare classifiche sulla musica di Ermal, però, penso che, per il mio sentire, per il mio vivere, per il mio respirare dentro a ognuna di quelle canzoni, una più bella dell’altra, senza sapere quale sia poi la prima e l’ultima di una classifica inesistente, sono tutte incredibili, non riesco a scegliere, è stato l’album più bello che abbia mai fatto, forse il più completo in assoluto. È un album corale, un album di luce, un album che Ermal ha scritto immaginandosi in platea e si sente, cavolo, si sente proprio che questo è un album che dal vivo deve essere qualcosa di davvero impressionante. E finalmente, dopo tutto, c’è stato qualcuno che l’ha vissuto, questa estate. E tra poco, tra poco, toccherà anche a noi. Sì, perché, dopo tante esitazioni, tanti momenti di dubbio, tante cose che non si capivano abbiamo saputo da pochissimo che il tour nei palazzetti non è possibile, e in realtà lo avevo anche intuito, ed è stato trasferito nei teatri, dove la capienza è al 100%, e, anche se probabilmente non potrò confermare Bologna, ho confermato già Firenze e Roma e so già che il 18 marzo e il 27 marzo 2022 saranno due giorni indimenticabili e, non è un modo di dire, indescrivibili. E, dopo “Tribù urbana”, c’è un’altra immagine che rappresenta questo anno, lo rappresenta talmente bene che è l’immagine di questo articolo. Io non so più neppure quante volte sono entrata su quel sito, penso che, se i siti potessero parlare, il sito di prenotazione dei vaccini dell’Umbria, appena mi vede, direbbe: “A riecco questa!” A parte gli scherzi, i sistemi semplici, no. Cioè non è mai stato così complicato prenotarsi per un vaccino, mai così tanto, proprio quando doveva essere più semplice e accessibile. Ma la tigna, come si dice a Gualdo, ossia la testardaggine io ce l’ho e sono assai più ostinata di tutti i siti e delle loro disfunzioni o delle loro vie astruse e intrecciate. E sono riuscita a prenotare tutti i membri della mia famiglia: prima io, poi i miei, mia sorella e mia nipote, tutti, nel giro di pochi mesi, ce lo siamo fatto. Ed è stato il primo passo che ha reso possibile tutto di nuovo: le partite di calcio con il pubblico, i concerti vicinissimi, le fiere del libro in presenza e la normalità che abbiamo ricominciato a conoscere, alla quale abbiamo ricominciato a riabituarci e alla quale, lentamente, piano piano, un passo per volta, ci riabitueremo ancora. E io continuo a non capire chi non se lo vuole fare, come è possibile che abbia a disposizione il solo mezzo per tornare alla normalità e non lo voglia, permettendosi di giudicare il lavoro degli altri e non avendo la più pallida idea di come funzionano le cose, non preoccupandosi, mai, neppure una volta, degli effetti collaterali di tutte le medicine che prendono. E giustamente, quando stai male, prendi la medicina punto e basta. E lo stesso ragionamento dovrebbe essere per il vaccino, che serve per prevenire e per evitare una malattia di cui sinceramente io ne ho abbastanza, anche solo a distanza, anche solo per quanto ne ho sentito parlare e per tutti i danni che evidentemente ha fatto, sulla vita di troppe persone. Io proprio non ci tengo a conoscerla più da vicino. E non ci tengo neppure che la conoscano gli altri. Quindi per me, ma anche per tutta la gente, per la società e perché questa nazione possa ricominciare davvero, io il vaccino me l’ho fatto. Sorvoliamo sul fatto che dovevo essere la prima della mia famiglia e, alla fine di tutto, prima di me se l’è fatto mia sorella tutte e due le dosi, anche precedentemente alla mia prima. Però, è arrivato anche il mio turno. La prima dose il 4 maggio e la seconda il 15 giugno, sì, perché praticamente sono stata la sola che ha risentito dello spostamento della seconda dose da ventuno giorni a quarantadue. Ma, anche se un po’ dopo, ce l’ho fatta. E chi se ne frega del dolore al braccio e dei dolori muscolari, ma proprio è stato un piacere. E se tornassi indietro lo rifarei mille volte e, nel caso in cui sarà consigliata e necessaria la terza dose, io sarò in prima fila di nuovo. Se permettete, anzitutto, per me, perché decidere di farsi il vaccino è anche un atto egoista, cioè preservo me, ma è anche un atto altruista, perché, preservando te, aiuti anche tutti quelli che ti stanno vicino, tutta la società a uscire dalla situazione e soprattutto, e non mi dite che è una cosa secondaria, quelli che il vaccino non se lo possono fare, anche se vorrebbero tanto, per fortuna, non sono molti, ma ci sono. E si dovrebbe pensare anche a loro, facendolo. E so che c’era tutto, tutti i pensieri concentrati e un attimo solo di emozione intensa, che, come tutti i momenti di emozione, è difficile da descrivere, quando ero lì, seduta su quella sedia e l’infermiera mi ha fatto la puntura. Ricordo bene come si sono svolte le cose. “Hai paura?” Mi hanno chiesto e io sicurissima: “No”. Anzi, come ha specificato mia madre, non vedevo l’ora. E sono stati momenti davvero rappresentativi di un anno, per uscire là fuori, dire a tutti io l’ho fatto, è stato bellissimo ed è bellissimo tornare alla normalità, fatelo anche voi, così alla normalità ci torniamo tutti, presto, definitivamente, senza neppure bisogno di regole o di riabituarcisi. È stata un’estate quasi normale, molto più normale di quella dell’anno scorso, l’estate della ripartenza, l’estate dopo i vaccini di tutti i membri della mia famiglia, un’estate indimenticabile non solo dal punto di vista personale, ma, diciamo, nazionale. Abbiamo cominciato con la vittoria all’Eurovision e non ci siamo fermati più. Abbiamo vinto tutto quello che si poteva vincere dalla musica, alla pasticceria, allo sport. E le notti magiche degli Europei ce le porteremo nel cuore, per sempre, una vittoria dietro l’altra, la nazionale di calcio guidata da Roberto Mancini ci ha fatto sognare. E ci ha fatto sognare, anzitutto, per come ha giocato, una nazionale che ha ricordato a tutti la nazionale del 2006, una nazionale che ha fatto restare con il fiato sospeso, milioni di persone incollate alla T.V, un’intera nazione davanti alle imprese leggendarie di una squadra straordinaria, che ha vinto proprio perché ha giocato, ha agito e ha pensato come squadra. E sono state serate che ci anno ricordato di quanto lo sport può unire, di quanto è vero che si ferma una nazione quando gioca la nazionale, di quanto questa nazione ha sofferto e può rialzare la testa anche così, con i cuori che si riempiono di orgoglio nazionale e con le bandiere che si alzano in aria, mentre tutte le macchine sfilano per le strade. E le città si riempiono di grida, di vittoria, di felicità, di emozione, di suoni inconfondibili, che sogniamo da tanto tempo. Dal 2006, quando abbiamo vinto i Mondiali. Ma anche da prima. Una vittoria che agli Europei mancava dal 1968, cinquantatré anni di attesa, e ne è valsa la pena. Ed è stato un Europeo trionfale: gironi a punteggio pieno, ottavi, quarti, semifinale e una finale al cardiopalma. E tutta l’emozione, le speranze, l’ansia, il panico di un intero Paese nelle mani del portierone Gigio Donnarumma, che è stato proclamato migliore giocatore degli Europei e che soprattutto è diventato il mito di tutta la nazione, e che diamine, per forza! Quella coppa l’abbiamo vinta grazie alla squadra, che ha trionfato in tutte le occasioni, ma è chiaro che l’abbiamo vinta soprattutto grazie a lui, con le parate straordinarie, che entreranno nella storia del calcio italiano. E un’intera nazione ha rialzato la testa. Non è solo sport, è vita. è unità, è dire noi ci siamo, siamo inciampati, siamo caduti, ma ci siamo rialzati. E anche noi l’abbiamo fatta la sfilata, urlando, suonando le maracas e i claxon per le vie della città, con il tricolore che sventolava fuori dal finestrino, mentre abbiamo seguito per tutto il tempo un trattore che apriva la fila. E le emozioni non si sono fermate qui. Ma sono continuate a Tokyo e non solo. E che emozione tutte le medaglie che abbiamo vinto alle Olimpiadi e alle Paralimpiadi, seguite con il fiato sospeso e che ci ha visti protagonisti in tantissime gare, vincendo moltissimo e battendo tutti i record che c’erano da battere. E ce lo meritavamo, ce lo siamo meritato dopo un anno tanto complicato, ci siamo meritati di poter gioire come nazione e poter far vedere al mondo che noi ci siamo, eccome se ci siamo. E accidenti al resto del mondo abbiamo dato parecchio fastidio, soprattutto a qualcuno, per le vittorie! È normale, perdere non è bello, per niente, ma mica può sempre toccare alle stesse persone, ogni tanto siamo stati noi che abbiamo perso, quest’anno invece abbiamo vinto e ogni tanto è bello il sapore, l’odore, il rumore e il colore della vittoria. Colore tricolore, colore oro, argento, bronzo della coppa, delle medaglie, delle emozioni. E ricordatevi che ora l’uomo più veloce del mondo è italiano. Anche questa ci toccava vedere! Una specie di sogno senza fine, ma un sogno a occhi aperti, che non avremmo mai detto di vivere, solo fino a poco tempo fa, ma che abbiamo davvero vissuto. Sono state tante le medaglie da ricordare, ma la giornata più emozionante per lo sport italiano è stata il 1 agosto: prima la straordinaria medaglia d’oro di Gianmarco Tamberi condivisa per loro unanime scelta con il suo amico e rivale degli Emirati Arabi Uniti, Mutaz Essa Barshim, dando una lezione importante non solo di sport, ma di sportività e di vita, perché, l’hanno detto, nessuno dei due poteva togliere all’altro la gioia più grande, soprattutto dopo che entrambi hanno vissuto un difficilissimo infortunio; e poi l’incredibile, prima la semifinale, il record europeo e poi… Poi, e tremo ancora nel dirlo, nella gara regina dell’atletica, nei 100 metri, che abbiamo visto sempre da lontano perché non ci riguardava mai, quest’anno, però, siamo arrivati primi, Marcell Jacobs ha vinto, ha vinto con il tempo incredibile di 9,80 secondi ed è come se avesse vinto un’intera nazione. E poi tutte le medaglie di tutti gli sport, alcune attese, altre inaspettate, chiudendo con il record di sempre: quaranta medaglie. E vogliamo parlare poi delle sessantanove medaglie delle Paralimpiadi, tantissime nel nuoto e in altri sport, ancora Bebe Vio nella scherma, e ancora nei 100 metri, nella categoria T63 (con protesi a un arto), abbiamo colorato il podio tutto d’azzurro: tre medaglie, mica una. Ambra Sabatini, Martina Caironi e Monica Graziana Contrafatto ci hanno fatto sognare, in un altro giorno che passerà alla storia. Era il 4 settembre. E tutte queste vittorie hanno contribuito a fare un anno e un’estate indimenticabili per una nazione, per ognuno di loro, anche per me. E per me l’estate è stata resa ancora più speciale da alcune inaspettate presentazioni del mio libro che ho potuto fare nell’ambito del premio regionale FulgineaMente, prima a Perugia, nel magico posto dei giardini della Biblioteca di San Matteo degli Armeni, e poi a Deruta, nell’ambito del Deruta Book Fest. E sono state due presentazioni davvero speciali, condivise con altri autori bravissimi, con le domande poste dagli organizzatori, che hanno letto e apprezzato il mio libro. E non importa il premio, se si arriva in finale oppure no, l’importante è di aver partecipato e aver avuto la bellissima possibilità di incontrarsi e farsi conoscere, che oggi, dopo tutto ciò che è stato, hanno davvero ancora più importanza e quindi maggiore bellezza di quanto ne avessero già prima. E ne avrebbero avuta comunque moltissima, così è proprio inquantificabile. A testimonianza che le cose più belle non si possono misurare. Le cose più belle si possono solo respirare… Le cose più belle si possono vivere. E ancora una volta, come ho detto all’inizio e come ripeto qui, soltanto i sogni possono rendere possibile l’impossibile e ci fanno scoprire che, quando sono condivisi, sono anche più belli di quando li progettavamo solo nel segreto del nostro cuore. E, mentre realizzavo e condividevo i miei sogni con gli altri, è stato bellissimo condividere i sogni degli altri, il sogno di un mio caro amico, Sebastien, che dopo un anno di attesa, è riuscito finalmente a fare la presentazione del suo libro, “Un angelo in miniera”, e per me è stato un onore poter leggere la riflessione che avevo scritto sul suo libro ed essere al suo fianco quella sera. E, poi, attraverso tutte le emozioni, i sogni miei e altrui, la normalità che ritorna, le vittorie dell’Italia, i primi veri concerti di Ermal, si arriva a oggi. E nel mio passato recente, come nel mio futuro immediato ci sono due cose. La prima è la più importante di tutte. E l’ho condivisa ancora con poche persone, con gli amici più stretti, però, queste sono le pagine del bilancio e del racconto di un anno e, in quest’anno così speciale, non posso dimenticare una cosa importantissima, non posso non condividere con voi, con tutti voi, la prospettiva incredibile di un sogno che ancora è solo nella mia testa, che sto costruendo io, piano piano, un giorno per volta, una fatica dopo l’altra, e ho detto che deve assomigliare a un parto nella fatica, nella lunghezza della preparazione, nella bellezza di qualcosa che nasce e nel fatto che, poi, quando il sogno viene alla luce, dimentichi un po’ la faticaccia che hai fatto e resta solo la felicità. Be’, la pubblicazione di un libro è un po’ un parto. Sì, l’ho detto, ho detto pubblicazione. Anzi, l’ho scritto. E questo per me ha ancora più valore. Se c’è una cosa a cui dare valore, io lo faccio scrivendola. E io sono troppo emozionata nello scrivere, ora, qui, proprio nel giorno del compleanno di questa rubrica che è cresciuta con me, ma è restata uguale nelle intenzioni, negli intenti, in quanto ci credo nella passione di sempre, facendo conoscere culture nuove soprattutto araba che possono darci tanto, che quest’anno no, ma il prossimo anno, il 2022, già speciale prima di cominciare, lo sarà anche per un altro motivo. Tornerò sotto il palco di Ermal e… Pubblicherò il mio secondo libro. Ed è una cosa certissima, come il fatto che questi giorni sto facendo una faticaccia pazzesca, al limite delle forze. Ed è proprio vero e sicuro, proprio in virtù di quello che sto facendo in queste settimane, di quello che abbiamo fatto in questi mesi e ringrazio sin da ora mia nipote Sheila e mia madre, perché, senza di loro, non credo che ce l’avrei fatta, perché mi hanno dato una mano nella prima revisione e ora che sto facendo la seconda posso solo sentire l’emozione salire, e l’emozione è assai più forte della fatica. E sentire il cuore riempirsi di gratitudine, di attesa, perché i sogni, ancora una volta, renderanno qualcosa possibile e trasformeranno la mia fatica e il lavoro che sto facendo io nel segreto del mio computer in qualcosa di tangibile, di nuovo in un libro di carta e in e-book, che potrò tenere in mano e scaricare e dire a tutti, ancora una volta, che questo è il mio secondo libro e che porterà sicuramente la data del 2022, appena due anni dopo dal mio primo sogno, ora arrivo con questo nuovo sogno e sarà bellissimo condividerlo con voi. E sarà più facile fare le presentazioni. E spero anche di partecipare di nuovo al premio FulgineaMente, perché mi sono trovata benissimo e che mi importa se neppure la prossima volta arriverò in finale, l’importante è sognare, realizzare i sogni e condividerli. E la seconda cosa riguarda il corso on line che sto facendo e al quale mi sto decisamente affezionando, come alla casa editrice che lo svolge. Si svolge interamente su Zoom e viene tenuto dalla Giulio Perrone Editore, da ottobre a gennaio, e parla del mondo editoriale, in tutte le sue sfaccettature e, visto che poi è il mio mondo, mi interessava capire tante cose e ne sto comprendendo sempre di più. E sono tornata a prendere appunti e a fare compiti, ma ne vale la pena. Davvero interessante e illuminante sotto molti aspetti e mi sta avvicinando a tante cose che conoscevo o non conoscevo molto, aiutandomi già a comprendere ciò che volevo capire e non vedendo l’ora che arrivi sabato prossimo in cui si parlerà dell’argomento che mi interessa di più, ossia l’editing e sarà un editor a farci lezione. E ora, qui, in questa rubrica che è stata passato, con sei anni di libri recensiti e cinquantanove articoli compreso questo, voglio parlare proprio di lei, del suo presente e del suo futuro. Da qualche mese non viene più pubblicata nel luogo originale di OneElpis che purtroppo si è dovuto sospendere a causa degli impegni del suo creatore e gestore, ma viene pubblicata, insieme a Emozioni da lupi, nel mio nuovissimo blog personale, che ho chiamato Oltre, perché è ciò che entrambe fanno, vanno oltre, oltre l’apparenza, oltre i pregiudizi, oltre ciò che si vede da lontano e vanno in fondo alle cose, conoscere le culture diverse, scoprire che hanno molto da insegnarci, raccontare le emozioni di un libro, di un film, della musica di Ermal e farlo sempre con la stessa passione, lo stesso amore e la stessa dedizione dell’inizio, per sapere che, se tutto cambia e tutto scorre, io e le mie rubriche siamo e resteremo ancora qui, pronte a viaggiare con chiunque voglia farlo insieme a noi.

© Arianna Frappini,

Intellettuale orientalista con particolare interesse per la cultura araba

Riproduzione riservata

Fonti:

Social

Citato “L’ultimo dono prima di morire” di Arianna Frappini

Detto popolare

Citato Dante

Citati articoli di Emozioni da lupi dell’autrice

“Un milione di cose da dirti” di Ermal Meta

“Caruso” di Lucio Dalla cantata da Ermal Meta

“Amara terra mia” di Domenico Modugno cantata da Ermal Meta

Serate di Sanremo trasmesse su Rai 1 dal 2 al 6 marzo 2021

Concertone del primo maggio 2021

“Tribù urbana” album di Ermal Meta

Finale dell’Eurovision Song Contest del 22 maggio 2021 trasmessa su Rai 1

Euro 2020 trasmessi dall’11 giugno al’11 luglio 2021 su Rai 1

Wikipedia

Olimpiadi Tokyo 2020 trasmesse su Rai 2 dal 23 luglio all’8 agosto 2021

Paralimpiadi Tokyo 2020 trasmesse su Rai 2 e Rai sport 1 dal 24 agosto al 5 settembre 2021

Citato “Un angelo in miniera” di Sebastien Mattioli

Zoom

Foto scattata dalla madre dell’autrice durante la prima dose del vaccino il 4 maggio 2021

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