L’eternità dell’amore e la forza dei ricordi: “La ragazza di Teheran”

L’amore può essere eterno. Non solo nelle favole, negli ideali, nei libri, nei film. Non solo in qualche creazione artistica fantasiosa, che racconta la realtà in tutti gli aspetti e in tutti i momenti, ma sembrerebbe, secondo la razionalità diffusa, indugiare nel lietofine e/o fissare sulla carta un’idea utopica come quella dell’amore che dura per sempre. Eppure, non è un’utopia. E non è solo un ideale. Forse è una follia, una meravigliosa concessione alla fantasia, una pennellata di fiaba nel mondo reale. L’amore può davvero essere eterno. Non è il miraggio inconsapevole di una sentimentale, né un delirio senza pari di una romantica. È la realtà, è la verità, può essere credibile. L’amore può davvero durare per sempre. E per sempre vuol dire almeno due cose. La prima vuol dire che è vissuto con tutta l’intensità possibile, che concede a noi esseri mortali una porta d’accesso all’eternità, come piccoli spazi di infinito nella nostra limitatezza. Come in quegli istanti di sublime felicità, in cui ci pare di essere un tutt’uno con l’eterno, l’immenso, parte infinita di un tutto enorme, come se potessimo conoscere, amando ed essendo amati, i segreti celati agli occhi e ai sensi fisici, ma non al cuore, non all’anima, non alla parte più spirituale e più misteriosa, quasi inconscia e inconsapevole, di noi. Come ha raccontato una volta Ermal Meta nella storia d Roi, concludendo che è proprio la nostra limitatezza a renderci felici, sapere che non siamo immortali, ma possiamo vivere momenti tanto intensi da metterci in comunicazione con quello che è eterno e totale. Ma per sempre non significa solo questo. Per sempre, il per sempre che tutti pensano, mentre lo dicono e accusano di follia chi dice una cosa del genere, è la durata. Una durata eterna, lunghissima, incalcolabile, che attraversa gli anni, i dolori, le gioie, la vita. E che è talmente forte da sorpassare anche i confini che nessun altro può valicare se non l’arte. C’è un solo tipo di confini che l’umanità non può attraversare, di sicuro non può attraversarlo restando vivo, però c’è una cosa che sorpassa persino la morte, quella linea di demarcazione che separa questo mondo dallaltro, e non è possibile con la vita, non è possibile con la felicità, forse non è neppure possibile, per lo meno non solo, con la fede, ma con l’amore sì. Chi resta può continuare ad amare chi non c’è più e da qualche parte chi non è più di questa terra può continuare ad amare chi resta. E il loro amore sarà la sola comunicazione possibile, il solo ponte di connessione di due mondi che sembrerebbero uno l’opposto dell’altro e parrebbero essere agli antipodi, come i due poli, che reggono tutta la terra, ma non si incontreranno, né si fonderanno mai. Eppure, anche la vita e la morte possono essere unite, avvicinate, indissolubili, davanti all’universo, e soltanto l’amore può rendere più bella la prima e anche più dolorosa, eppure più innocua la seconda. Perché la morte può spegnere tutto e di sicuro spegne la forza vitale, ma l’amore può sopravvivere. Io sono convinta che l’amore può sopravvivere, che certe storie d’amore, anche se finiscono o si concludono sulla terra, continuano da qualche parte, nei ricordi di una mente che continua a ritornare con il sorriso a quell’amore giovanile, oppure nei ricordi, forse impalpabili, forse astratti, forse che non possiamo provare, ma solo ipotizzare, dell’anima quando fluttua in uno spazio eterno e non conosce più il deterioramento, la vecchiaia, il respiro del corpo. Io sono convinta che l’amore può davvero durare per sempre. Durare nei ricordi, durare nelle anime, durare per quanto è stato intenso o durare per davvero fino all’ultimo istante, quando uno se ne va, stringendo la mano dell’altro, e si guardano come si guardavano anni prima. E, anche dopo, quando la morte mette a tacere tutto, l’amore continua a gridare. L’amore grida nelle lacrime, grida nel dolore, ma anche nella consapevolezza di dover trovare il modo di vivere con un pezzo di cuore in meno, l’amore è tenere la mano di chi se ne va, l’amore è anche piangerlo e rimanere desolati davanti alla sua dipartita, ma è anche rivivere, respirare di nuovo, anche con un peso sull’anima e con il vuoto nel cuore, l’amore è ricordare sempre quell’amore, fino all’ultimo giorno della vita, fino al punto in cui forse, e io voglio credere che sia così, potranno ritrovarsi. E, se l’amore è stato tanto intenso, tanto meraviglioso, tanto totale da arrivare fin lì, allora la morte non può davvero nulla e si ha davvero tutta l’eternità per ritrovarsi, rincontrarsi, continuare a innamorarsi, ad amare, a prendersi cura l’uno dell’altro in modo diverso, con le anime, che forse conservano tutti i ricordi, oppure sono talmente simili da riconoscersi anche altrove. Di sicuro questa è una concezione romantica, a tratti folle, che sembra assurda a qualsiasi logica, che spesso si poggia solo sulla fede, sulle ipotesi, sulla propria visione sentimentalmente dolce della vita, ancora fissa sull’idea delle favole del vissero per sempre felici e contenti. Eppure, anche quando il mondo sembra cadere a pezzi, io ci credo ancora, che si può davvero essere felici e contenti per sempre. Non senza difficoltà, senza dolori, senza ostacoli, come immaginano gli autori di tutte le fiabe. Ma vivere felici e contenti significa, in questa vita, secondo me, riprendersi dai dolori, significa inciampare, cadere e rialzarsi, significa affrontare tutte le prove della vita con il sorriso e restando uniti, significa anche piangere, ma poi riprendere a ridere, significa amarsi come il primo giorno, anche quando il mondo intero ti cade addosso come rocce pesanti oppure quando la morte ti strappa dalle braccia, ma solo fisicamente, chi ami. E io sono pronta a sostenere questa teoria non solo citando decine di storie, vere o verosimili, libri, film, canzoni, ma sono pronta a sostenerla, anche davanti all’opinione diffusa che gli amori sono incostanti, che non esiste più una relazione duratura, che si tende a cambiare partner e a smarrire, nell’effimero, il concetto dell’eterno. Eppure… Eppure, l’amore non si svilisce neanche davanti a tutte queste fini di storie e non sbiadisce nemmeno di fronte a tutte le tempeste e alle rotture. L’amore è comunque immenso, totale, bellissimo. L’amore è lo stesso eterno. Magari l’amore tra quelle due persone finisce, magari quelle due persone sono separate dalla vita e non si possono più soffrire, ma quel sentimento, quei momenti di eternità, quella dolcezza, quella bellezza, quella completezza, se ci sono stati anche per poco, restano nei ricordi, felici, nostalgici, a distanza di tempo splendidi, anche se dolorosi. L’essenza di quell’amore resta. Non dura in eterno nel vero senso della parola, ma può rimanere sopito dentro e tornare ad avvolgerci il cuore se non di passione e di intimità, magari di nostalgica tenerezza o restare semplicemente come un’esperienza della nostra vita, che eviteremmo volentieri, ma non è certo colpa dell’amore o l’amore ha meno valore se tra quelle due persone non c’è più. A volte magari si può risvegliare con tutta la sua forza, inaspettatamente, rincontrandosi, oppure può solo essere dolce tenerezza, o anche cieca rabbia, se si incrociano i passi di chi si è amato. Di sicuro, di fronte alla persona con cui c’è stato un legame, non proviamo indifferenza. E persino il fastidio, la rabbia, il rancore sono segno di qualcosa, di certo di una veste particolare dell’eternità, ma pur sempre di eternità si parla e pur sempre della forza dell’amore si tratta. L’amore è di tanti tipi e di tante forme, di tutte le sfumature. L’amore si cela dietro ai sentimenti più assurdi, l’amore è qualsiasi cosa proviamo davanti a chi abbiamo amato, fosse anche un pallidissimo ricordo lontano o un insulto bloccato alle labbra, ma è pur sempre qualcosa. È difficile che non proviamo niente e restiamo completamente indifferenti davanti a quella persona. Qualcosa resta. Forse tizzoni senza fiamma, o ceneri che si disperdono con il vento, ma pur sempre qualcosa di forte, o sottile, di sicuro qualcosa di eterno, di bello, semplicemente qualcosa che scorre sulla pelle e sottopelle. E non è forse l’amore l’unica forza in grado di sorpassare i limiti, i confini, la morte, la rabbia, la rottura? Per l’amore non c’è mai davvero fine, per l’amore ci sono solo centinaia di inizi e miliardi di svolgimenti. E l’amore, come essenza, come carezza, come forza salvifica, come dolce rimpianto, come rabbioso ricordo, rimane, ritorna, o magari resta sempre sopito lì, senza mai esplicarsi e senza trasformarsi in nessuna sensazione concreta, ma comunque giace nei ricordi, in qualche angolo inconscio, dove conserviamo tutta la nostra storia personale e, anche se raramente lo riportiamo alla memoria, ha comunque contribuito alla nostra crescita, al nostro percorso, al nostro essere, facendoci diventare chi siamo noi oggi. Noi siamo il risultato di tutte le volte che amiamo, di tutti i modi in cui amiamo, di tutti i ricordi di quando abbiamo amato e dell’essenza della vita, di quella forza misteriosa e salvifica, che si regge sull’anima, sui ricordi, anche quando i ricordi sono lontani o la memoria vacilla: l’amore. Fino all’ultimo istante, per quanto incoscienti o inconsapevoli, proviamo amore. O, comunque, in ogni caso,dovremmo provarlo. Deve essere orribile morire con altri sentimenti, con l’odio e con la rabbia. È molto meglio morire, fermarsi davanti alla morte, scorgendo la sua faccia, quando ti passa la tua vita di fronte, e dire: nella mia vita ho amato e quindi ne è valsa la pena. È valsa la pena che io vivessi, che io amassi, anche che io soffrissi se ora, quando la mia anima andrà altrove, sono ancora piena d’amore. E con l’amore accanto, sulle labbra, o solo nei ricordi, io posso dire: io amo. Amo una persona, amo la mia famiglia, amo i miei ricordi. Oppure magari non mi sono mai sposata e non ho mai avuto dei figli, ma ho comunque amato. Il mondo, l’umanità, la vita. me stessa. E le mie passioni. E non mi ricordo di preciso chi lo disse, mi pare Khalil Gibran in “Le ali spezzate”, ma doveva aver ragione, che non si può dire di aver vissuto senza a ver amato. E non è possibile che esista una persona che, nella sua vita, non ha amato almeno una persona o almeno una cosa. Anche chi dice di non conoscere l’amore che unisce due vite, in realtà, l’amore lo ha conosciuto. Lo ha contemplato negli occhi degli altri, lo ha scritto nei suoi libri, lo ha visto nei suoi sogni, lo ha sentito addosso. Ha amato la sua famiglia, ha amato i suoi personaggi, ha amato la sua arte. Tutti amiamo. E il mondo può piegarsi, spezzarsi, andare in frantumi, essere terribilmente ingiusto e crudele, ma c’è una cosa che riscatta l’umanità, che riesce a diventare luce nel buio, speranza nella disperazione, pace nella guerra: l’amore. L’amore totale, infinito, immenso. L’amore… Tutti gli scrittori, i filosofi, le persone di ogni tempo hanno cercato di dare una definizione dell’amore, anche io l’ho fatto a lungo, continuamente, e forse sto ancora cercando la definizione perfetta. L’ho cercata nei miei libri, nelle mie storie, in questi articoli, in ogni cosa che faccio, negli articoli di Emozioni da lupi, a volte ho pensato che l’amore fosse semplicemente inesprimibile,e, soprattutto, e lo penso sempre, che non esistesse un amore sbagliato. L’amore è giusto, sempre. Non esiste amore sbagliato, non esiste amore innaturale. E non sopporto l’idea che qualcuno lo veda così. L’amore è solo amore. Quando è un sentimento meraviglioso che dà luce è giusto. L’unico amore innaturale è l’amore che smette di essere amore e diventa odio. L’odio è innaturale, l’oppressione è innaturale, non l’amore. L’amore è vita, è respiro, è natura. L’amore… L’amore è eternità. Forse la mia migliore definizione è questa, o forse è soltanto la mia definizione di oggi, di sicuro quella più rispondente al momento e al libro di cui parleremo, quella che ho scritto proprio una notte su Facebook, per commentare il libro, riportando il titolo, l’autrice, i nomi dei personaggi principali, mentre li ringrazio: “La ragazza di Teheran” di Marjan Kamali con Roya e Bahman come protagonisti indiscussi e come unica, vera e totale essenza questa consapevolezza, che galleggia nell’aria di ognuno di noi, dopo la lettura di questa storia: che l’amore può essere eterno, che l’amore è eterno, che l’amore è eternità. E, da qualche parte, l’amore di Roya e Bahman non è mai finito. Si sono allontanati, separati, lasciati. Hanno entrambi avuto, per tutta la vita, la terribile impressione di essere stati lasciati dall’altro e, nonostante si siano rifatti una vita, si siano sposati, abbiano avuto dei figli, non hanno mai smesso di pensarsi, di ricordarsi, di avere diciassette anni, a Teheran, e di ritrovarsi, nei ricordi, ogni martedì, alla libreria del signor Fakhri, per continuare a innamorarsi, a conoscere la vita l’uno dell’altra attraverso un amico comune, poi a perdersi quando il loro amico muore come medico di guerra, eppure… Eppure,, da qualche parte, Roya ha continuato ad amare Bahman e Bahman Roya e questo non significa che non hanno amato i loro rispettivi compagni di vita, o non hanno amato la loro esistenza, rimanendo bloccati in un eterno passato. No, significa solo che si sono portati con loro il rimpianto, il dolore, forse solo la delusione e magari pure la rabbia, ma mai la cattiveria o l’odio. Neppure nel momento più doloroso, Roya e Bahman si sono odiati o hanno desiderato il male l’uno per l’altra, anzi, in qualche modo, hanno sempre desiderato il meglio, la felicità, la pace, hanno continuato a interessarsi l’uno dell’altra e, alla fine, si sono ritrovati, come solo la vita può far ritrovare due persone, per scoprire che sessant’anni non sono sufficienti per cancellare un amore pieno di luce, di speranza, di vita e che, in fondo, anche se si ha settantasette anni, si è una donna in piedi, anche se instabile, a una vista che ancora emoziona, o si è un uomo di fronte a lei in sedia arotelle, con tante domande e le cose che sembrano non tornare nei loro ricordi e nei racconti della loro separazione, ha ragione Bahman: avranno sempre diciassette anni. Roya e Bahman, uno di fronte all’altra, settantasette anni, una vita di altri dolori, di altre gioie, di altre completezze, rispetto a quelli che rimpiangono di non aver potuto vivere insieme, sono lì, fusi nello sguardo, ancora incantati dalla reciproca vista e come trasportati nel mondo meraviglioso della loro giovinezza, e noi con loro. Teheran, 1953. Ed è una penna straordinaria quella capace di raccontare una parte della storia dell’Iran che, in tutti i libri a noi noti di quel paese meraviglioso, abbiamo sempre conosciuto un po’ di striscio, solo di sfuggita, come un passaggio importante mai approfondito. Di solito tutte le storie di scrittori iraniani si concentrano, e anche giustamente, sugli ultimi anni del governo dello shah, sulla rivoluzione del 1979 di Khomeyni e su come la rivoluzione, che all’inizio era speranza di cambiamento, sia diventata un altro regime del terrore. È giusto ed è comprensibile che tutte le penne siano rivolte a denunciare le ingiustizie del potere degli yayatollah, che cerchino di trovare una qualche spiegazione o una qualche collocazione logica agli eventi che hanno scosso l’Iran in prossimità del 1979,. È necessario denunciare, è necessario ricostruire il passato per capire il presente e per sperare e lottare ancora e ancora, fino a che sarà possibile, per il futuro. Tutti gli scrittori iraniani che abbiamo conosciuto fin qui parlano soprattutto di quel periodo storico, o del presente, con lo sguardo eterno verso il futuro, a volte, come nel libro “Il re” di Kader Abdolah, di un passato ancora precedente, nell’Ottocento, ma mai nel 1953, non del tutto, solo di sfuggita. Nessuno degli scrittori iraniani che ho letto si è mai concentrato sul 1953 e sulle speranze, sulle convinzioni, sulle agitazioni, sulle proteste e sulle pressioni esterne di quell’anno, quando la speranza di tutti gli iraniani era il Primo Ministro Mossadeq, coraggioso, fermissimo, pronto ad affermare, per la prima volta davvero, il potere del parlamento e l’indipendenza dell’Iran. Eletto democraticamente, Mossadeq, per tutti gli iraniani, o comunque per una buona parte, ha rappresentato la prima vera possibilità per un futuro diverso, per un’indipendenza reale, per una democrazia che muoveva i suoi primi passi convinti. Ma una persona troppo coraggiosa fa scomodo, soprattutto a quelle potenze occidentali, che si vantano tanto di essere culle di democrazia e hanno finito per uccidere quella iraniana, soltanto per salvaguardare i propri interessi economici e ancora per colpa di quel maledetto oro nero che ha fatto sempre gola a tutti e ha regolato i rapporti internazionali. E le potenze occidentali, soprattutto gli Usa, non potevano tollerare che il Primo Ministro iraniano fosse l’indipendente e coraggioso Mossadeq, che aveva come obiettivo principale quello di nazionalizzare il petrolio, in modo che non ci guadagnassero gli stranieri, ma solo gli iraniani. Ha cercato di far diventare il petrolio risorsa degli iraniani, non a disposizione, insieme al Paese, alle influenze degli occidentali, che hanno sempre sostenuto lo shah, trattandolo come un burattino, come uno zerbino a loro servizio e a difesa dei loro interessi. E, poi, forse, si capisce anche meglio perché ha preso piede uno come Khomeyni con le sue posizioni estreme. L’Iran ha sempre avuto sete di futuro e di idee e, in quel 1953 in cui Roya e Bahman si trovano, si incontrano,si innamorano e si separano, tutto il Paese è percorso da centinaia di opinioni diverse e di manifestazioni contrastanti: ci sono i sostenitori costanti dello shah, ci sono quelli più religiosi, che non si accontentano di niente, ci sono i comunisti che credono che il solo modello di giustizia possibile da seguire sia quello dell’Unione sovietica e poi ci sono i seguaci sfegatati di Mossadeq, convinti che solo la sua indipendenza,il suo coraggio e il fatto che sia stato eletto e sia molto amato dal popolo possano dare all’Iran il posto che merita, non un burattino, non uno zerbino, non uno strumento, ma un Paese capace di scrivere il proprio destino e di cambiarlo. Viene ripercorso, con grande maestria e con tutta la passione politica dei personaggi che vibra in ogni pagina e gonfia il cuore di speranza, il periodo dei cambiamenti di Mossadeq, dei tentativi di rovesciarlo e, infine, dell’ultimo tentativo andato a segno, quando è stato deposto da un colpo di stato che ha riportato al centro del potere lo shah e, dunque, gli interessi economici dei Paesi occidentali,che non hanno pensato ai sogni infranti o alle speranze spezzate, che sono venuti meno al proprio principio di diffusione della democrazia e alla loro stessa presunzione in proposito, preferendo il guadagno facile. Certo, è stato un colpo di mano di cui non hanno avuto colpa solo le potenze straniere, la gente c’era davvero per strada ed erano iraniani, ma è facile accendere e trascinare una folla piena di passione e un Paese colmo di speranze. E, in quella piazza, in quelle due piazze, in cui la gente urla “morte a Mossadeq”, ci sono Roya e Baaman, in due posti diversi, che aspettano l’uno l’altra e, alla fine, sono convinti di essere stati abbandonati, traditi, lasciati. E le due lettere che ricevono sembrano avvalorare questa tesi. Per Roya Bahman non l’ha mai davvero amata e non è pronto per sposarla. Per Roya tutte le promesse di Bahman sono sfumate nel nulla. Per Roya Bahman si è comportato da approfittatore spergiuro. Tuttavia, Roya continua ad amare Bahman. In silenzio, anche nella rabbia, nella tristezza, nell’incredulità. E anche con un oceano o qualche continente in mezzo,anche in America, dove cerca di ricomporre i pezzi della sua anima e del suo Paese, per studiare ed essere una delle prime iraniane laureate all’estero, per seguire le speranze del padre, che ha voluto che lei e la sorella Zari diventassero qualcosa di grande, e per fuggire dal suo stesso dolore. E Roya, in America, conoscerà lo smarrimento, la nostalgia di casa, la paura dell’ignoto, la gentilezza di qualcuno, l’amore che può ritrovare, anche se aveva pensato di non innamorarsi più, e poi la completezza, il dolore, la perdita, la morte… E, in tutti i sessant’anni della sua nuova vita in America, Roya continuerà a portare con sé, come la più dolce delle case, il suo amore eterno per l’Iran, per le sue tradizioni, per i piatti tipici che continua a preparare e a insegnare a tutti, per quelle piccole accortezze e cortesie della cultura persiana, come il tè, le meravigliose celebrazioni del Nowruz (il capodanno persiano, che coincide con l’equinozio di primavera), i saluti interminabili quando ci si incontra,il togliersi le scarpe prima di entrare nelle case, tutta quella spontaneità tenera di quando aveva diciassette anni, viveva con i suoi genitori, studiava, guardava il mondo con fiducia e conosceva, per la prima volta, l’amore. Roya, nel suo amore per l’Iran, per Teheran, per il passato, per la famiglia, per i ricordi, conserverà, da qualche parte nel cuore, pronto a ridestarsi, quando meno se lo aspetta, quello stesso amore, il primo,che le ha riempito la giovinezza di luce e il futuro di speranze e di rimpianti: l’amore per Bahman è ancora lì. Anche se è arrabbiata, anche se non capisce perché lui non si è presentato, anche se non comprende perché lui l’ha lasciata, lei lo ama e non può davvero credere che lui non l’abbia amata, non può credere che la loro storia sia stata solo un capriccio. E, forse, forse non è troppo tardi. Anche sessant’anni dopo, quando la cosa sembrerebbe avere meno senso e meno valore, il mondo può rendere giustizia a quei due diciassettenni ingiustamente separati, e non per loro scelta, solo che loro non lo sanno e non possono immaginarlo. La vita può essere giusta e, anche sessan’tanni dopo, può restituire a Roya e a Bahman ciò che doveva essere loro, quando avevano diciassette anni, quando erano insieme, arrampicati sulle staccionate, le trecce di Roya che le ricadono sulle spalle e gli occhi di Bahman eternamente pieni di luce, perché lui,infondo, nell’anima, è e sarà sempre “il ragazzo che vuole cambiare il mondo”, come dice il signor Fakhri, in una manifestazione in piazza, a favore di Mossadeq, dove avevano sentito ancora una volta di amarsi e dove sarebbero stati pronti a restare insieme anche di fronte al dolore, alla devastazione, alla repressione. È un libro straordinario della storia d’amore di due persone, della storia d’amore di un Paese per il futuro, di una storia poco conosciuta e riportata con tanto amore e tanta dolcezza dall’autrice che da adolescente è emigrata dall’Iran negli Stati Uniti, che ha donato al mondo questo piccolo-grande gioiello, illuminante, vibrante di futuro, mirabile nelle descrizioni, preciso nella ricostruzione storica e capace di restituirci personaggi indimenticabili, a volte a limite della follia oppure solo delle scelte umane che spesso hanno conseguenze sulle generazioni future senza l’intenzione di farlo e ci insegna che, in fondo, ognuno di noi può avere un passato. Anche quel personaggio può conservare dei ricordi insospettabili, che lo spingono ad agire in modi imprevisti,contro la coscienza e contro l’affetto sincero per due ragazzi, per non aver avuto il coraggio di opporsi alla famiglia e per aver abbandonato quella ragazza tanto desiderata e amata, perché era povera e il padre benestante, davanti alla richiesta del figlio di sposarla, si era solo fatto una risata che chiudeva per sempre le speranze, o forse è solo questo che si è voluto credere: di non averla un’altra scelta per giustificarsi di non avere avuto il coraggio di opporsi alla famiglia, per paura di perdere la stabilità e i privilegi, o solo l’equilibrio. Questo libro affronta temi importantissimi con una delicatezza sublime e uno su tutti, quasi nuovo e imprevisto, è quello della malattia mentale, di come spesso il dolore possa piegare, di come i rimpianti possano spezzare, di come la perdita di un figlio possa rompere tutti i pezzi e spingere ad agire in modi egoisti, sconsiderati, pensando solo alla propria elevazione sociale, come un riscatto e uno schiaffo a colui che l’ha abbandonata perché povera, con le conseguenze di una sofferenza senza fine che si riversa sul marito tanto devoto e sul figlio affezionato,fino a condizionare per sempre l’esistenza di entrambi e a decidere la direzione, il futuro, il matrimonio e la vita, secondo lei, così perfetta, del figlio, anche se non con la donna che lui amava e avrebbe voluto sposare. E così Marjan Kamali ci dona personaggi straordinari, che a volte hanno una vita intera in comune, a volte condividono il passato e i ricordi, che si sono amati e questo è sufficiente, anche se c’è il dolore di mezzo, anche se sono passati sessant’anni e anche se avessero un solo minuto o una sola lettera per ritrovarsi, per spiegarsi e per amarsi come il primo giorno.

© Arianna Frappini,

Intellettuale orientalista con particolare interesse per la cultura araba

Riproduzione riservata

Fonti:

Storia di Roi di Ermal Meta a Radio Italia

Citata l’altra rubrica del blog, Emozioni da lupi

Citati “Le ali spezzate” di Khalil Gibran e “Il re” di Kader Abdolah

“La ragazza di Teheran”, Marjan Kamali, Libreria Pienogiorno, Milano, 2023, ISBN: 9791280229847

Foto della copertina, screen dall’ebook

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