La voce della storia e il valore della testimonianza: “L’albero dei fiori viola”

“Se non potete eliminare l’ingiustizia, almeno raccontatela a tutti”. È una frase del giurista iraniano Ali Shariati che abbiamo incontrato per la prima volta nell’incipit di “La gabbia d’oro” di Shirin Ebadi e che ho avuto modo di ripetere a lungo e di inserirla tra le mie citazioni preferite. Una frase che potrebbe essere posta all’inizio di qualsiasi libro di testimonianza, di qualsiasi libro che racconti una storia, che riesca a innalzare il grido della denuncia, senza spegnere del tutto la speranza, una frase adatta per tutti i contesti, i libri di ogni epoca e di ogni luogo, come se fosse un enorme abbraccio mondiale, capace di solcare i confini, come solo l’arte può riuscirci, come solo le parole sono capaci di fare, in grado di sciogliere i nodi, di dissipare le tenebre, di districare matasse intrecciate di fili intricati, di dissolvere il buio nella luce, nel grido, nella voce. Anche il silenzio ha una voce. E pure il silenzio merita di parlare. Le ingiustizie sono quasi sempre silenziose, anche quando fanno molto rumore. Sono silenziose, perché rischino di essere dimenticate, cancellate dal tocco di spugna di chi le ha perpetuate e non ha interesse che si conoscano, che si sappiano, che vengano raccontate. Le ingiustizie è molto meglio che avvengano in silenzio, al buio, dove nessuna voce e nessuna luce può arrivare, almeno nelle intenzioni di chi le fa, di chi le commette, di chi imprigiona i corpie spera di legare anche le anime. Ma le anime sono libere. I pensieri sono capaci di andare oltre i muri. Le parole non le metti a tacere. Le idee non puoi ucciderle per sempre, anche se cerchi di spegnere chi le pronuncia e chi le divulga. Le idee troveranno sempre il modo di arrivare all’esterno, il pensiero troverà sempre il modo di scivolare via dagli spazi angusti in cui si può rinchiudere il corpo. Le idee non si possono legare, il pensiero non si può incatenare, le anime non si possono distruggere. Sono più forti, sono più salde, sono più grandi. Più grandi di qualsiasi piccolezza, più grandi di qualsiasi ingiustizia, più immense di qualsiasi silenzio. Le ingiustizie sono grandi, molto grandi, e possono intaccare, umiliare, piegare, anche uccidere, ma le parole, le parole possono riparare a qualsiasi torto e possono arrivare là dove spesso l’anima umana non può arrivare in altro modo. Sono l’unica speranza, le parole. Sono la sola certezza, le idee. Quando perdi la libertà, quando credono di averti strappato persino la dignità, quando pensano di essere riusciti a straziarti il corpo e l’orgoglio, allora, là, nel punto più basso dell’inferno su questa terra, rimane una speranza, la speranza di lottare, di combattere, di urlare. Quando il mondo intero tace, non resta che urlare. Quando il mondo intero sembra avvolto dalle tenebre, non resta che accendere una luce, anche una sola luce, “accendete più luci possibili”, ha detto Ermal meta in un’intervista e ha ragione. Le parole accendono luci, le idee accendono luci, le storie accendono luci. E non èv ero che non serve a niente. Non è vero che il mondo deve per forza rimanere ingiusto e crudele, il mondo può cambiare, il mondo deve mutare, il mondo deve attraversare piccole e grandi rivoluzioni che spostano, anche se di poco, l’asse degli eventi e il corso della storia. E, nella storia, tante persone hanno lottato in ogni luogo, per combattere le ingiustizie, per abbatterle, per eliminarle, per cancellarle, ma sono come le erbacce, difficili da estirpare, e ritornano più fiorenti di prima, spesso ritornano in modi imprevisti, persino mascherati da idee che altrove sono libertà, oppure nei momenti in cui va tutto bene e si abbassa la guardia, oppure, anche se in un luogo non ci sono (o ci sono a livelli non troppo evidenti), in un altro purtroppo spuntano e non possiamo, anche se io idealmente voglio crederci, eliminare del tutto le ingiustizie in ogni luogo. Rimane un sogno, un meraviglioso sogno da sognare e da perseguire, a ogni costo, anche quando pare un miraggio che scompare nelle pieghe silenziose della sabbia sotto il sole, come la pace nel mondo. Bei miraggi, bei sogni, che vanno afferrati, però poi scivolano tra le dita, che vanno inseguiti e spesso, poi, nel mondo, conta questo e la felicità non è la realizzazione di sogni meravigliosi, troppo improbabili, ma nella continua ricerca, con le anime, i cuori, i pensierit utti protesi in quella direzione. Se non è possibile eliminarle le ingiustizie, bisogna sempre mirare a quell’obiettivo. E, se non è possibile riempire il mondo di pace, va sempre seguita e perseguita la pace, in tutte le occasioni in cui è possibile. Va sempre urlato no alla guerra e va sempre innalzata la giustizia, anche qualora fosse difficile, impossibile, improbabile, o rimandabile a un futuro che si allontana sempre. E il modo di seguirle, la giustizia, la libertà, la pace, è raccontare. Il valore della testimonianza è potente quanto la voce della storia e giunge là dove nient’altro può arrivare. È un mezzo potente, la parola, e questa verità spesso sfugge a noi fortunati che non abbiamo mai conosciuto l’oppressione,se non sui libri, se non dai racconti altrui, se non dalle immagini altrui, se non, sempre, attraverso quello che capita a qualcun altro, ma ben lo sa chi l’oppressione la conosce, la sente ogni giorno sulla pelle, e purtroppo lo sanno benissimo anche tutti i regimi del terrore di ogni schieramento e di ogni epoca, che, prima di tutto, provano a mettere a tacere il pensiero, la parola, perché chi pensa fa paura, chi parla fa paura, chi pensa può distruggere il loro mondo di cristallo e chi parla può svelare a tutti quanti qual è la vera natura dei loro segreti e delle ingiustizie che pensano di perpetuare in silenzio, dietro le spalle di tutti, come se il mondo non dovesse o non potesse sapere. Invece, il mondo deve sapere, il mondo può sapere, il mondo, troppo spesso, anche quando sa, rimane indifferente o si volta dall’altra parte, ma, fosse anche per una sola anima che si ferma, quel racconto vale la pena farlo. Vale la pena raccontare le ingiustizie. Non le puoi eliminare, ma le puoi far conoscere, le puoi denunciare, puoi scrivere là dove chi le perpetua vorrebbe solo negarle, puoi trasformarle in piccoli e continui rintocchi, che funzionano da promemoria e da campanello di allarme, perché non si ripetano più in futuro, perché non si ripetano più altrove, perché non ci siano più nello stesso modo o perché chi le incontra, dopo averle lette e ascoltate, possa riconoscerle e combatterle più efficacemente, e soprattutto puoi innalzare finalmente la voce di chi la voce l’ha persa, o gli è stata strappata, poter rendere il dovuto omaggio e il giusto tributo alle vittime, a quelli che non ce l’hanno fatta, a quelli che delle ingiustizie ne sono morti e non sono più tornati indietro dalla porta del carcere. Le ingiustizie non si possono eliminare, sembra una triste realtà, ma il racconto può fare tutto ciò che il silenzio non riesce a fare,ed è un mezzo tanto potente che se ne può avere un’idea soltanto leggendo, ascoltando, vivendo e respirando quelle storie. Le storie non sono fatte solo per essere scritte e lette, ma respirate. Vanno sentite, queste ingiustizie, interiorizzate, mentre sono denunciate, in modo che si incontrino con il cuore e si incollino alla pelle, e smuovino tutti i sentimenti possibili, la pietà, la comprensione, il rispetto, la rabbia e infine l’urlo. Quello stesso grido che tutti dovrebbero gridare davanti a qualsiasi ingiustizia, di fronte a qualsiasi denuncia, per le vittime, per le loro famiglie, per chi poteva tacere e invece ha avuto la forza di raccontare, per chi è tornato dall’inferno per descriverlo, per chi ha avuto il coraggio di urlare al di sopra del silenzio dell’oppressione e far sentire la propria voce al di sopra della paura, della censura, dei rischi, dei pericoli, perché la giustizia è più grande, la libertà è più importante, le parole sono più potenti, la voce è più risoluta. Quel grido, lo stesso grido che risuona in queste pagine, che rimbomba nei libri, che sembra che si possa udire scorrendo certe storie, che sono meravigliose carezze e dolorosi pugni allo stomaco, di una tenerezza struggente e di una durezza solo umana, quel grido, il grido di tante persone, dei perseguitati politici, dietro alle sbarre di un carcere, di chi non ha mai visto da chissà quanto tempo la luce del sole, di chi non ha avuto più il conforto dei fiori o non ha potuto vedere i propri figli crescere, di chi la voce l’ha perduta, strozzata in gola con il respiro, quello stesso grido di chi ha subito, di chi ha vissuto, di chi ha visto e di chi ha avuto la forza di sapere e di raccontare, quello stesso grido che dovrebbe sorgere spontaneo nel cuore, dalle labbra, dall’anima, dalla bocca e dagli occhi, dalle mani e dalla forza di ognuno di noi, dopo aver letto certe pagine, conosciuto certe realtà, capito quanto è potente l’oppressione, ma che la libertà è ben più forte e ben più ostinata. Quel grido, il mio grido, il tuo grido, il nostro grido, il grido di tutti i Paesi e dello stesso mondo, il grido che viene da dentro, che forse non è neppure parole, o è pochissime parole. Quando le parole le trovano gli altri, tu ci provi a cercarle, magari le scopri pure, in qualche angolo del tuo cuore smosso e scosso da pagine che lasciano il sigillo sull’anima, ma all’inizio, davanti a quegli istanti, nel silenzio della tua lettura, gridi. E gridi mai più, mai più, mai più. Sono queste le parole più ricorrenti quando conosci un’ingiustizia e ne senti la potenza nel racconto. Mai più. non deve accadere mai più, non deve essere mai più, non dobbiamo permettere che succeda mai più, in nessun luogo, dobbiamo proteggerci, difenderci, urlare. Dobbiamo urlare, parlare, raccontare. Perché, finché ci sarà qualcuno in grado di raccontare e di dare con la scrittura e con la testimonianza il valore alle cose che vogliono far sparire e alle persone che vogliono annullare, allora nessuna ingiustizia vincerà e nessuna oppressione sarà mai vittoriosa e non avrà mai compiuto del tutto la sua opera. Finché una sola voce si innalzerà nel silenzio e una sola luce si accenderà al buio, allora questo mondo sarà sempre e comunque sulla strada giusta. Forse non potremo davvero realizzare quel mai più in ogni luogo, ma la cosa importante è ancora e ancora crederci, tenderci, come abbiamo letto una volta in una citazione, “punta sempre alla luna, male che vada avrai camminato tra le stelle”, ed è ciò che possiamo fare: se non è possibile un mondo senza ingiustizie, è possibile un mondo con meno ingiustizie; se non è possibile un mondo senza guerre, è possibile un mondo con più pace, e bisogna sempre farlo, sognare, vivere e… Raccontare. Essenzialmente, raccontare. E, quando pensi di non avere più mezzi e che l’ingiustizia soverchia il resto, allora c’è il racconto. E Ali Shariati ha ragione. Perché, se un’ingiustizia la taci, è come se i colpevoli rimanessero impuniti e le vittime morissero centinaia di volte, o le persone venissero imprigionate altre mille volte. Se racconti, invece, se ne parli e ne parli con delicatezza, con decisione, con una penna capace di scavalcare i confini e i muri, che spesso ci costruiamo intorno per difenderci, allora, ne sarà valsa sempre la pena. Raccontare non è facile, condividere non è immediato, ma, se si ha la forza di trovarle leparole, allora quel racconto salverà chi lo ha scritto, chi lo ha letto, i protagonisti, che, anche se sono personaggi inventati, le loro storie sono incredibilmente vere e la narrazione sembra essere la voce di un intero popolo che alza la testa, che continua a lottare, con un mezzo che per sapere quanto è potente si leggano certi libri e si venga poi a sapere come quei libri vengono allontanati, guardati male, a volte censurati, come spaventano il potere. Le parole sono pugnali e sono carezze. Le parole possono arrivare molto più in fondo di qualsiasi gesto. Le parole sono gesti, le parole sono idee. Le parole sono vita, le parole sono speranza. Le parole sono l’unico mezzo, ma non sono un ripiego, le parole sono il centro di tutto, la forza di dirle, di conoscerle, di scriverle e poi di leggerle. “Se non potete eliminare l’ingiustizia, almeno raccontatela a tutti”. E io sono convinta che sia così, che possa servire a tutti, che basti davvero a questo mondo conoscere, denunciare, lottare, combattere. E non c’è mezzo più efficace della condivisione, di parole ripetute, riprese, riscritte, che si allargano a macchia d’olio, e la voce e l’eco della speranza si espandono nel mondo, raggiungono altri cuori,altri lidi, scavalcano i confini, forano i muri dei carceri e si innalzano libere, come l’aria, per tutto l’etere, sparse per il cielo, disperse dal vento, portate in ogni luogo e in ogni epoca, per poter urlare insieme “mai più” e per leggere pagine dolorosissime e insieme tenerissime, perché la testimonianza è necessaria, il racconto è necessario, le parole sono necessarie, ma non sono facili. E spesso le parole sono più pesanti di macigni e/o più delicate di ali di farfalle che si posano sul volto della vita, al crepuscolo o davanti all’alba. Le parole possono far male, come coltelli grondanti sangue, estratti direttamente dall’anima, eppure poi, dopo, facendo male, scavando giù fino alle viscere, fino al midollo, fin dentro al sangue, grondano vita, traboccano speranza e,seppure sono dure come la pietra e appuntite come l’anima quando si scheggia, sono utili, asportano pezzi incancreniti di ricordi dolorosi e finiscono per curare. Forse è un controsenso passare attraverso il dolore per curare, eppure è l’antico metodo sempre efficace della catarsi di cui parlava Aristotele per il teatro: contemplare i dolori altrui, o anche i propri, e sentirsi purificati, alleggeriti, in qualche modo curati. Per quanto quel racconto sia costato sangue e sudore, alla fine, quel racconto in qualche modo ha curato il dolore che è stato sublimato nelle parole, che è stato reso visibile, che non è più silenzioso, ma è diventato voce ascoltata da tutti ed espanso per il mondo. E spesso il solo fatto di essere ascoltati, e non importa il numero delle persone che ascoltano, basta una sola persona o la più efficace delle confidenti, quale sa essere la pagina bianca, ci si sente meglio. Quando ci si sente più vicini, più compresi, capaci di poter buttare fuori ciò che ferisce, per quanto faccia male, alla fine quello del racconto è un dolore che rimargina, che chiude piano piano le ferite e che riesce, nonostante il suo carico, a guarire, come il silenzio, la negazione, il volersi nascondere e sfuggire alla verità non riuscirebbero mai a fare. Certo, affrontare un racconto non è facile e spesso, per salvaguardarsi nell’immediato, si preferisce tacere, nascondere, negare, come se bastasse provare a negarlo, perché non sia mai accaduto. Chi sceglie di raccontare ha coraggio, chi non racconta non è codardo, fa solo un’altra scelta e ha solo paura dei ricordi e di non poterli sostenere e di non doverli far sostenere agli altri. Alla fine, però, vince chi racconta e chi tace finisce per perdere, per morire lentamente migliaia di volte e per non guarire mai del tutto. Invece una cosa, quando la dici, puoi lasciartela alle spalle. Puoi afferrarla come una pietra e buttarla dietro. Sarà sempre sul tuo cammino, ma farà meno male, o sarà più leggera, perché condivisa dalle persone care, oppure il dolore non ne sarà diminuito, ma resterà il valore del racconto, delle radici,della testimonianza e un sicuro monito per il futuro. Quando si ha un certo passato e si conosce un certo racconto, certi errori non si dovrebbero fare e il futuro sarà di sicuro migliore che se poggiasse su radici incerte. Tutti noi abbiamo un passato e delle radici,a cui non possiamo sfuggire, scappare dal passato è controproducente, e dobbiamo avere, tutti, la forza di accettarlo,di sentirlo e di raccontarlo. Il valore della parola sulla pagina bianca è probabilmente difficile da spiegare, o magari diventa anche banale dirlo, eppure per me sta tutto in queste due parole, in queste due parole definitive, incredibili, più forti della storia e delle nostre stesse esistenze mortali: “per sempre”. Quelle parole sono “per sempre”. una testimonianza scritta dura per sempre. Un libro dura per sempre. Una denuncia dura per sempre. E quel racconto di quelle ingiustizie dura per sempre. E non passa mai di moda, e cent’anni dopo magari ci si trova nello stesso luogo a raccontare ingiustizie di cento anni prima,che possono ripresentarsi, che possono tornare, che dobbiamo saper riconoscere, avendole lette, e più efficacemente evitare. Le testimonianze non hanno tempo, le parole non hanno spazio, i libri non hanno confini e non hanno pregiudizi di nessun tipo, di nessun luogo, di nessuna epoca. Le parole sono sempre lì, attuali, presenti, ormai scritte e, anche se chi le ha scritte non c’è più, ne rimane il valore, ne resta il coraggio e rimane per tutti noi lo stesso monito e resta per noi lo stesso grido di libertà. Ci sono tantissimi libri così, tutti di enorme valore, e non si potrebbe mai dire abbastanza sulla forza magica e curatrice della parola,in grado di rimarginare qualsiasi ferita, di riparare a qualsiasi ingiustizia, di accendere qualsiasi luce sulle tenebre del tempo e sul buio dello spazio. Non esiste tempo, non c’è spazio che tenga davanti a un libro, a una storia, a un racconto attuale, ambientato in un Paese o in un altro, con la stessa forza di valicare confini e di abbattere muri. Perché nessun carcere ha il muro tanto spesso da non far entrare la vita e da non far uscire il grido. Nessun carcere potrà mai davvero imprigionare le anime, potrà davvero incastrare i pensieri, potrà davvero spegnere le parole. Le parole, la vita, la speranza troveranno sempre il modo di uscire e di entrare. Non c’è prigione alla libertà. E non c’è muro abbastanza spesso per l’amore. E il libro di cui parleremo oggi, di cui stiamo già parlando, lungo gli argini di queste pagine, è un altro libro straordinario di testimonianza e di testimonianze, di storia e di storie, di voce e di voci dell’autrice, dei personaggi,delle loro famiglie, e di tutti coloro che nel mondo vengono piegati, ma non possono essere davvero spezzati dall’oppressione, di chi lotta per la libertà e di un intero popolo che ci ha dato prova ancora una volta, negli ultimi mesi, della sua forza, della sua sete di vita, del suo coraggio e del suo ostinato, testardo e cocciuto bisogno di futuro, un libro durissimo e tenerissimo, che scava dentro come un coltello e cura come la carezza del mare sulla sabbia, che da qualche parte e in qualche modo mi a trovata. Ha trovato la porta aperta del mio cuore e, per mezzo mio, queste pagine, e spero che abbia in qualche modo lambito le vostre spiagge e che possiate prendere in considerazione l’idea di custodire questo gioiellino. I libri non vanno solo letti, ma respirati, custoditi, protetti. È un tesoro di una potenza inaudita, di una tenerezza commovente, di momenti in cui ti sciogli dentro agli abbracci e ti sembra di vibrare, fino al midollo,di passione e di vita, anche là, nel punto più buio, nel punto più basso, nel punto più oscuro, dove sembrerebbe non arrivare la vita. È il libro degli spazi aperti e sconfinati della caotica e infinita Teheran, di vie silenziose,che sembrano rincorrersi e ritrovarsi nei posti più imprevisti, di Torino, splendida, nei suoi bar e nei suoi teatri, lungo le passeggiate che ci si possono fare, e ancora dell’immensità degli aeroporti, che non sono solo luoghi di passaggio, ma essi stessi luoghi di vita, di addii e di ritorni, e poi di quella casa meravigliosa dal portone azzurro sempre a Teheran, dove tutti i personaggi passano, si trovano,si sentono giunti, come se tutti, nonostante tutti i dolori e le provenienze, avessero lo stesso ricordo e lo stesso albero di jacaranda con i suoi fiori di mille sfumature tra il rosa e il viola, simbolo per eccellenza della vita, della speranza e della rinascita. Ed è lì che tutti mirano a ritornare, ricordano di essere stati e sperano di poterci giungere con l’amore e con il perdono. Ed è il libro degli ampi spazi, che tende sempre alla libertà, alla completezza, alla forza della denuncia, anche quando racconta gli spazi più angusti, le soffocanti pareti del carcere di Evin, dove sono rinchiuse troppe persone per le loro idee, donne e uomini con una vita là fuori,con una famiglia là fuori, con dei figli che non possono veder crescere, con il marito che non sanno dove sia,con la moglie che si sente tradita nella promessa di essere felici insieme. Eppure, anche lì, nel posto più soffocante e orribile, anche lì nasce la vita. Perché la vita sa sempre aggrapparsi alla luce e trova sempre il modo di farcela. Perché, in quel carcere spoglio, anonimo, orrendo, pieno di violenza, di odio, di nostalgie, di assenze e della sola colpa di pensare ed esistere, può nascere una bambina, una bellissima bambina dai capelli neri e dagli occhi severi, una piccola neonata che passa dalle braccia incredule della madre a quelle delle compagne di cella, quella stessa neonata che ricorda la forza della vita, che urla vita, , che piange come solo i bambini sanno piangere, riempendo il silenzio, colmando l’infinito, facendole diventare, tutte, di nuovo, madri. Trenta donne nella stessa cella che diventano madri insieme alla loro compagna, capendo quanto può essere potente la vita e quanto può essere incredibile la speranza. Ed è per questo che poi la piccola viene portata via dalla madre, perché i carcerieri hanno paura,paura della vita, paura della speranza, paura della luce. E questa storia di questa nascita sembra davvero inverosimile, per quanto sia bella e commovente, eppure abbiamo la prova che è ispirata alla realtà. I libri denunciano le cose vere, sì, ma a volte possiamo pensare che inseriscono elementi romanzeschi, che nella realtà non ci sono, eppure questa storia è anche vera, con altri nomi, ma è reale. Ed è la sua storia, la storia dell’autrice straordinaria di questo libro, un’eccezionale, non ancora conosciuta, potente Sahar Delijani, scrittrice iraniana, che abita a Torino e che esordisce con questo libro, storia romanzata della sua famiglia e storia reale del suo Paese e, anzitutto, la sua storia, perché Sahar è nata in carcere e ha conosciuto la verità attraverso il racconto coraggioso di sua madre e le lettere di suo padre prima del suo ritorno. Ha avuto entrambi i genitori in carcere per motivi politici e anche Sahar, come la Neda del libro, è stata sicuramente speranza, ha riportato la luce, ha dimostrato che la vita è più forte. Ed è davvero incredibile come la realtà possa sorprendere, di quella piccola bambina nata nel carcere, tra le braccia della madre, ne ha fatto una scrittrice capace di dare voce alle donne, agli uomini, ai bambini e a un intero Paese con il suo primo, ispirato e riuscitissimo romanzo, “L’albero dei fiori viola”. Questo è il titolo in traduzione e, anche se non è la traduzione esatta del titolo originale in inglese, rende comunque l’idea e forse la rende anche meglio, perché tutto ruota intorno ai fiori viola della jacaranda, che è casa, è speranza, è libertà e resta luce, anche nel punto più buio del carcere di Evin. Nel carcere di Evin vive Azar, imprigionata per le sue idee, separata dal marito, anche lui prigioniero politico, che ha il terrore di non riuscire a partorire, ma alla fine Neda riempie le sue braccia,colma gli occhi delle sue compagne di cella, è condivisione di felicità, è l’urlo della vita al di sopra di quello della morte. E Neda, come Sahar, avrà sempre il valore della testimonianza, del racconto dei suoi genitori e, un giorno, seduta in un caffè di Torino, sentirà quel passato più vicino, con il peso e la responsabilità di quel racconto, di conoscere un passato doloroso e difficile e pesante da portare, come un macigno, che pure lei non intende negare, ma parlare, raccontare, ripetere, e che non può essere staccato da lei, come un marchio, come un sigillo, come un motivo di appartenenza e di orgoglio, con una sola forza che muove le sue azioni, le sue parole, il suo legame con i genitori, con il passato, con il Paese d’origine e con il futuro, futuro che spesso passa per il perdono, che assolve e deve lentamente assolvere i figli che non hanno le colpe dei padri, o forse in fondo anche i colpevoli sono ingannati, sono portati ad agire in un certo modo, e il concetto sta tutto lì, che basta davvero per redimersi, poter cambiare e tornare indietro, rischiando di essere trattati peggio degli altri: l’amore. Neda è stata amore per Azar, neda è capace di dare amore a Reza e da lui riceverlo con tanta dolcezza. E solo l’amore riesce a fare da contrappeso alla durezza di questo libro, è ciò che rende tanto tenere queste pagine da rimanere sciolti nel suo calore e da restare congelati nel dolore, l’amore che non solo bilancia la vita, ma non manca, mai, in ogni luogo, in ogni fotografia ingiallita dal tempo oppure a miglia di distanza o a chilometri dal passato, che riesce a sorpassare anche il muro del carcere, come il sigillo doloroso di una tomba senza nome. E questo romanzo non ha una sola voce, ma tante voci. Quella che sembrerebbe inizialmente una storia più personale diventa una storia corale di tante voci e, alla fine, di un solo paese. E allora, oltre ad Azar, a Neda, all’amore materno della prima, all’amore filiale e che cambia gli equilibri della seconda, ci sono tante altre donne e tanti altri uomini,che tornano, che non ritornano,che parlano, che negano, che tacciono, che si portano dietro il peso del passato, doloroso come una ferita che solo l’amore può curare. E così c’è il duro e tenero Reza, che si scioglie davanti agli occhi di Neda, o Sheida, che sente tutto il peso del passato, anche se (e forse proprio di più per il silenzio) sua madre Maryam ha sempre cercato di negarlo, di nasconderlo, di seppellire nel suo cuore il profondissimo dolore e la certezza, che ha cercato di negare alla figlia e al mondo, di essere morta, dentro, quel giorno, con il marito Amir giustiziato con un processo sommario e assurdo. E poi c’è lei, Maman Zinat, salda, ostinata, un po’ ansiosa come le nonne, come una madre che ha due delle tre figlie in carcere e cresce i nipoti con amore, con le sue piccole fissazioni, con l’allegria,anche quando il mondo intero sembra sgretolarsi. I nipoti Forugh, Sara, Omid e anche quelli che non sono nipoti di sangue, ma lo diventano per il cuore, come il dolce e sensibile Dante, sono molto lontani dai genitori, dietro le sbarre per motivi politici, e perderebbero la serenità e la gioia di vivere, eppure Maman Zinat, insieme al marito e alla figlia, che per tutti è Khaleh (zia) Leila, riesce a creare un piccolo spazio di normalità, di luce, di vita, che è tutto nei fiori viola della jacaranda e che è tutto nell’abbraccio materno di una casa, di una famiglia e di come l’attesa, spesso, si possa costruire e possa essere resa più bella,più sopportabile e più lieve dall’amore. L’amore di Maman Zinat e di Khaleh Leila è tenero come solo l’amore di due donne può essere. L’amore della prima è quello di una tutta dedicata a riempire d’amore i nipoti e a coltivare ogni giorno l’amore per le figlie in carcere. Quello della seconda è quello di una zia che resta in piedi, che sente di doversi dedicare con tutta l’anima e con tutta se stessa alla famiglia, incapace di staccarsi dalla casa, che non è per lei solo dovere, ma il più rassicurante degli abbracci, pronta a rinunciare anche a un futuro sicuro lontana dall’Iran con il suo amato Ahmad, però sente che non può, che deve restare per i suoi nipoti, per sua madre, per suo padre, per quella casa e per quello stesso albero, senza che questo sia un atteggiamento rinunciatario, anzi battagliero, scrivendo sul volto della vita il suo nome accanto a colui che ha amato anche fisicamente, fosse per una sola volta, un pomeriggio, con tutta se stessa, sperando di avere un figlio. Khaleh Leila non ha mai partorito un figlio, ma ha avuto tanti figli, che l’hanno amata molto da piccoli e che ritornano da grandi, nel momento del dolore più grande e lei è ancora lì, a braccia spalancate, con il cuore aperto per tutte le volte che tutti vorranno ricordare, fermarsi a guardare la jacaranda i cui fiori non li seccano le stagioni avverse e che è ancora lì, nonostante il tempo, i cambiamenti e i rivolgimenti, è lì, testimone di ogni rivoluzione, di ogni amore, di ogni sospiro e di ogni dolore, anche quando, all’improvviso, ti trovi sotto le sue fronde,lungo i suoi viali, apri la porta e comprendi che persino Maman Zinat non è immortale, anche se lo avevi proprio creduto, perché certe persone sono così forti da darti l’illusione di poter vivere per sempre. E forse davvero ci vivono, per sempre, nel cuore di chi resta, nelle mani che stringono le fotografie, nelle braccia di Forugh e Dante, che piangono per lo stesso dolore e si trovano in silenzio, con la rassicurazione e la forza dell’amore. L’amore, in questo libro, è capace di resistere al tempo, allo spazio, ai dubbi, alle diverse scelte, a chi sceglie di restare, a chi sceglie di tornare, a chi sceglie di andare, a chi sente che il suo futuro è altrove, nelle strade affollate e libere di un altro Paese e a chi sente che il suo rifugio è là, accanto al luogo in cui ha soferto, per poterlo cambiare, o solo per poter sentire ancora l’illusione del battito dell’amato marito. È un romanzo corale, che passa come una carezza, che ferisce come un pugnale, che ha la durezza della vita e la tenerezza dell’amore, ha il peso del passato raccontato, ma quello ancora più grande e senza scampo di quello negato, ha la forza delle radici, ha il coraggio della speranza ed è denuncia disperata, accorata, delicata, efficace, perché sincera, pura, vera, è descrizione di momenti reali e palpabili di amore avvertibile sul cuore e sulla pelle, di emozioni tanto intense dipinte mirabilmente, di rimpianti narrati lungo passeggiate silenziose e addii dolorosi, davanti all’ombra incombente del carcere di Evin che, nonostante tutto il carico di dolore che si porta dietro e che custodisce al suo interno, non potrà mai davvero oscurare la vita, la speranza, la libertà che sono passate tra le sue mura e che,pure con la sua imponenza, non sarà mai più potente, più immenso e non potrà competere con la luminosità, la speranza, la sete di vita e la certezza di un futuro ancora possibile per una coppia, per una famiglia o per un intero paese del meraviglioso albero dei fiori viola, che ha contemplato i ricordi, che ha raccolto le testimonianze, che ha assistito alle vite e che ha riempito, con il suo profumo, il pensiero costante di chi ci è passato, di persona e attraverso queste pagine, almeno una volta accanto.

© Arianna Frappini,

Intellettuale orientalista con particolare interesse per la cultura araba

Riproduzione riservata

Fonti:

Citazione di Ali Shariati ricavata da “La gabbia d’oro” di Shirin Ebadi

Intervista di Ermal Meta

Citazione di una frase letta in passato

Teoria rielaborata della catarsi di Aristotele

“L’albero dei fiori viola”, Sahar Delijani, Rizzoli, Milano, 2013, ISBN: 9788858644751

Foto della copertina illustrazione © Agnese Baruzzi

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