Il dolore della perdita e la salvezza dell’amore: “Aspetterò che i tuoi sorrisi tornino a riempire il mondo ”

A ognuno di noi, almeno una volta, è successo che la morte fosse più vicina. Che non fosse quella massa oscura e indistinta che si staglia sempre lontanissima, come un’ombra che si dissolve sulla lucentezza dell’orizzonte, che sappiamo che dovrà riguardare tutti prima o poi, che è l’inevitabile fine del percorso della nostra vita su questa terra, che può essere porta per un altro mondo, un uscio spalancato sull’eternità, ma che fa comunque paura, mette i brividi per l’enormità e preferiamo esorcizzarla con la vita, con il non pensarci, con il non confrontarci, con il continuare a tenerla ai margini, fino a dimenticarci di lei,a tralasciarla, a non permetterle di allungare i suoi artigli su di noi… Ci proviamo, ogni giorno, inconsapevolmente, involontariamente, per sopravvivere. E per vivere. Per vivere appieno ogni momento di luce, di dolore, di gioia, di amore, ogni istante di vita. È pur vero che non riusciremmo a vivere pienamente se lei non ci fosse, forse continueremmo a rimandare le scelte, la felicità e la vita se avessimo tutta l’eternità e se non sapessimo, più o meno consapevolmente, di avere comunque un tempo limitato e di doverlo vivere, prima che fugga, prima che se ne vada, prima che sia tardi. Però, nonostante questa sua presenza filosoficamente rassicurante, in fondo e in realtà, la morte ci fa paura e basta, è un mostro, che nasconde le persone che amiamo e ci separa da loro, che ci impedisce di sentirle, di abbracciarle, di parlare con loro. Che ci apre uno squarcio nel cuore difficile da rimarginare e che, per quanto ammantata di luce, sarà sempre un angolo di buio che incombe e che vorremmo solo far finta che non esista, che facciamo finta di dimenticare e che, talvolta, all’improvviso, quando meno ce lo aspettiamo, quando crediamo di averla ignorata ed esclusa sufficientemente, arriva. In una notizia. In un incidente. Mentre tocca le persone care di chiconosciamo, mentre sfiora le vite di chi abbiamo salutato il giorno prima, mentre avvolge e spegne le esistenze di un amico o di un famigliare. Talvolta, sì, è vicina. Ci riguarda da vicino. E tutti i nostri sforzi per ignorarla vanno in fumo, si dissolvono come nebbia spazzata dal vento. E le nostre difese non servono a niente. I nostri pensieri non servono a niente. Forse neppure i tentativi di rassicurazione, o la certezza di non essere i primi, servono a niente. E chissà se la fede può bastare. Forse è in questi momenti che la fede diventa più forte, che diventa saldo appiglio a cui aggrapparsi, per sperare che non sia la fine, che non sia la fine almeno per la persona che dobbiamo lasciar andare senza averlo deciso, che sia l’inizio della sua eternità, anche se per noi significa che non la vedremo, non la toccheremo, non le sorrideremo, non ci litigheremo più. O forse è in questi momenti che la fede, persino la fede, non basta e non arriva a colmare la perdita, a chiudere il vuoto, a non essere risucchiati dal silenzio. Ognuno reagisce come si sente, senza che una cosa possa essere giusta o l’altra sbagliata. Non esiste un modo sbagliato per affrontare il dolore, non esiste un modo giusto per attraversarlo. Esiste solo il dolore. Non quantificabile. Non misurabile. Non sondabile. E mai del tutto comprensibile, se non lo hai vissuto almeno una volta e che, se comunque lo avessi sondato, avvertito sotto le dita o contemplato con lo sguardo, non è detto che tu possa conoscere profondamente quello dell’altro. Il dolore è personale. Eppure il dolore è universale. Inevitabile. Ineluttabile. Ma che vorremmo solo non conoscere mai. Non avvertire mai. E invece succede, capita. E non esiste modo di sfuggirgli. E non esiste modo di renderlo minore. E poco importa, poi, alla fine, se quella persona è giovane o vecchia, certo un po’ importa, però credo che il dolore non si possa quantificare. Non posso credere che, quando la morte tocca un nonno o una nonna, tuoi e non quelli degli altri, sia tanto rassicurante che la gente dica ciò che hai detto pure tu per anni, che in fondo era vecchio, sempre meglio che era vecchio piuttosto che giovane. Mi sa tanto crudele questa affermazione. Certo, certo che è terribile morire da giovani e morire in circostanze diverse dalla morte naturale, dopo una vita intera di gioie e di dolori, però il pensiero che “era vecchio” può rassicurarti quando la morte non ti tocca da troppo vicino, non quando sei tu a perdere quella persona. Il dolore non può essere minore e non è certamente proporzionato all’età di chi se ne va, ma all’affetto che ti legava a quella persona. O almeno credo che sia così. Penso che sia così. E lo penso soltanto a immaginarlo e, ringraziando Dio, non per averlo vissuto, ma, anche se vorrei solo fare finta di non saperlo e trovare il modo di evitarlo, so che prima o poi mi toccherà e sono convinta che non proverei alcun conforto. Magari a qualcuno può rassicurare dire e ripetere, quasi come un mantra, l’età del defunto, o dire che tu ci metteresti la firma per arrivarci, però a me no, non penserei nient’altro che al vuoto che certe persone, per me imprescindibili, e forse ancora più imprescindibili per la vita che hanno visto e per come hanno vegliato su di me dai primi passi, lascerebbero andandosene. E, quando succede, dove vai? E dove la trovi la consolazione? Certo, poi, devi continuare a vivere, puoi continuare a vivere, per loro. Sembra poi banale anche dirlo, ma è pur vero e deve essere vero che non vogliono vederti così, che nessuna persona che se ne va vorrebbe essere pianta in eterno o impedire che la sua perdita tarpi le ali o inibisca per sempre la felicità a chi l’ha amata in vita e continua ad amarla, anche se non può più vederla e toccarla. Certo, bisogna andare avanti, cercare di sopravvivere e di vivere ancora e di vivere di nuovo,però un conto dirlo da fuori, un conto viverlo da dentro. Ogni dolore è diverso, eppure ogni dolore è uguale, uguale nel vuoto, uguale nella perdita, uguale nella difficoltà di essere compreso se non da chi vive qualcosa di simile, oppure davvero da nessuno. Un dolore che nessuno può sondare fino in fondo, che nessuno può davvero sentire, che lo sente chi lo prova, un dolore che ognuno affronta e cerca di curare a suo modo e a volte, al buio, ci si può appoggiare a qualcun altro, a chi resta vicino a noi, ad appigli fondamentali, a luci luminose nell’oscurità,a persone che rimangono ad aspettarci, che con pazienza riescono a scuoterci, che riescono a trovare un modo per accedere al mondo dietro cui ci barrichiamo e ci difendiamo sempre, inevitabilmente, quando soffriamo. Sono persone rare, sono persone preziose, come perle nelle conchiglie, persone che ognuno di noi dovrebbe augurarsi di incontrare, capaci di chinarsi dolcemente e inginocchiarsi accanto a noi,per aiutarci a recuperare i pezzi sparsi e silenziosi del nostro cuore spezzato. Sono persone che ognuno di noi dovrebbe avere vicino nel dolore e non è detto che siano quelle che crediamo di conoscere, a volte chi è della nostra famiglia non riesce ad aiutarci, proprio perché tende a essere troppo apprensivo. A volte l’aiuto ci viene da chi meno ci aspetteremmo ed è ancora più dolce, più prezioso, più importante. Non esiste un modo per uscire dal dolore, non uno univoco, ma esiste il modo di ognuno per uscirne, esiste una persona, una carezza, una parola detta al momento giusto, un pensiero che rompe la coltre, un giorno apparentemente come gli altri che abbiamo l’impressione che possa essere il primo di un’altra vita, pure con un pezzo mancante di cuore e anche se non potremmo più condividere le risate e le lacrime con chi abbiamo perso. E, come non esiste un modo univoco di viverlo, di sentirlo, di uscirne, di affrontarlo, non esiste un modo univoco, solo, riconosciuto, universale per raccontarlo. Ed è difficile. Difficile farlo, toccare questo tema, più difficile di altri,e rischi di fare buchi nell’acqua peggiori che quando parli della vita. Esistono tanti temi che la letteratura può affrontare, esistono temi importanti, temi delicati, temi complessi, temi ostici, che ti piegano lentamente, mentre cerchi di raccontarli, per urlare le ingiustizie, per denunciare l’oppressione, per parlare della droga, della violenza, della guerra. Niente è semplice e tutto è possibile, se hai il modo per farlo, se hai un’anima sufficiente per cercare e trovare il tuo modo per parlarne,per scriverne. Se ne hai la sensibilità, se ne hai la delicatezza, se ne hai la conoscenza, se ne hai la spinta che ti trascina, come il vento,a parlare delle storie che ti nascono nella mente, storie reali, anche quando i personaggi sono inventati, storie che urlano, dall’oscurità, che reclamano di essere raccontate,che ti chiamano da qualche parte, dentro a un sogno o all’interno di un pensiero, che nascono dagli antri misteriosi di una dimensione altra, o di qualcosa che non sono ancora ben riuscita a identificare, che premono sulla tua coscienza e ti fluiscono lungo le mani che scrivono. E credo che niente sia facile, ma tutto sia naturale, che trattare certi temi sia naturale e giusto e che lo si possa fare solo affidandosi al vento dell’ispirazione, cercare di compiere un passo per volta, con prudenza, lungo una scala che rischia di scricchiolare a ogni passo. E non può esistere niente di più difficile, di più complicato,di più ostico che parlare del lutto. Di una perdita. Di quando un tuo personaggio si confronta con la morte, da vicino, vicinissimo, da toccargli il cuore. E gli si spezza qualcosa dentro. E si spezza anche qualcosa in te. E allora cosa puoi fare? Davanti al dolore e al suo racconto? Camminare in punta di piedi. Forse sul filo del rasoio. Scrivere in punta di dita. E lasciare che l’anima cammini piano nel dolore. Con delicatezza. Al di là del fatto che ognuno affronta il dolore come pensa che sia meglio, o al di là del fatto, altrettanto vero, che prima o poi chi scrive deve confrontarsi con la morte di uno dei suoi personaggi, l’unico modo davvero efficace di farlo, di farlo per sé, anzitutto,e poi di farlo per chi ti leggerà, è con delicatezza. Certi temi vanno sfiorati. E vanno sfiorati con delicatezza. Con una sorta forse di timore reverenziale. Con il dolore che è inevitabile, con la cura che deve nascere da qualche parte. E questo passaggio, dal dolore alla cura, è naturale, è giusto, e deve essere naturale e giusto, ma soltanto trattato con delicatezza può essere visto per com’è, può essere vissuto da qualche personaggio e contemporaneamente da te, per poter dire alla fine che non esiste un modo giusto per raccontarlo, ma esiste il tuo modo giusto per raccontarlo e, se è giusto per te, deve diventarlo anche per gli altri. Con delicatezza. Scriverlo con delicatezza. Approcciarlo con delicatezza. Accostarsi con delicatezza. E arrivare a questo articolo senza avere poi l’idea di come fare a parlarne così esplicitamente, ma forse devo partire da me. Vivo. A volte la morte mi ha toccato più da vicino, in particolare in un’occasione, quando è morta la madre di una mia amica, che era una mia amica a sua volta e che sentivo parte integrante della mia quotidianità, una persona dolce che apprezzavo molto, anche se non ci ho scambiato molte parole, davanti alla cui dipartita ho avuto per la prima volta l’idea di che cosa fosse la morte e di come potesse spezzare il cuore. Avevo dieci anni. E mi sembrò una cosa enorme, insormontabile, pesante, un macigno che schiaccia il cuore. E poi passa, si alleggerisce un po’, forse scivola, anche se non ricordo (e credo che non si ricordi mai) il momento preciso in cui quel dolore si è attutito, diminuendo l’oppressione del cuore, ma, se dovessi dire che poi sia sparito del tutto, non è vero. Resta il ricordo. E resta il senso di vuoto. Più interno, meglio nascosto, sepolto sotto strati di vita, ma presente. E credo che il dolore sia ancora più grande e le sue tracce restino maggiormente a distanza di anni più il legame è stretto. Se io conservo qualche traccia di quel dolore e il rapporto non era famigliare o stretto come altri miei legami, penso che, quando tocca a una persona a te vicinissima, sia ancora più difficile e ci voglia molto più tempo e molto più impegno, o forse solo un cuore sufficiente per ricomporsi anche dopo che è finito in mille frantumi. E poi… Scrivo. E fino a un certo punto della mia vita e della mia scrittura non sono riuscita, e lo dico senza vergogna, a far morire un personaggio, era più forte di me, mi bloccavo lì, a un passo, salvando a volte vite che erano obbiettivamente condannate e già finite… Poi ce l’ho fatta… Diverse volte… Ed è stato devastante, come (non come, esattamente così) avessi vissuto un lutto reale. È stato come straziarmi una parte di anima e farla sanguinare nelle pagine, esattamente come sanguinavano i cari davanti alla morte di quel personaggio. Devastante. Dolorosissimo. Inevitabile. Perché l’arte è la vita. La letteratura è la vita e racconta la vita e, anche se vorrei tanto cancellarla e sono sicura che vorrebbero farlo tutti, specialmente quando ci tocca da vicino, la morte fa parte della vita e dunque deve poi alla fine, se racconta davvero la vita, far parte della letteratura e dell’arte. Solo che non esiste un modo universalmente efficace di farlo. E non può esistere un manuale che ti insegna quando farlo e dove farlo e come farlo. Esisti solo tu. Il foglio bianco. L’idea. E la consapevolezza che arriva un momento in cui devi dire addio a un personaggio, perché è così. Perché la storia è così. Perché la sua vita, che ti racconta da qualche luogo, è così. Non può raccontarla, se non accetti la sua morte. O forse non si tratta di accettarla, si tratta solo di raccontarla. E di sentire che è là che deve stare,per quanto vorresti solo far finta di non aver captato i segnali o vorresti ignorare l’ispirazione quando ti suggerisce una morte, un lutto, una perdita. C’è anche questo e non si può far altro che farlo il meglio possibile,il meglio possibile per se stessi e sperare che questo basti, basti per scriverlo e basti anche agli altri per leggerlo. E, come è difficile scriverlo, è sempre difficile leggerlo. Quando ti affezioni a un personaggio e poi, di colpo, muore. E tu rimani là a chiederti perché. Urlare di dolore. E sanguinare insieme ai personaggi che hai amato e la cui vita puoi vivere e sentire, mentre ti attraversa, e viverci poi insieme anche la tua, a cui sembra mancare un pezzo, quando un personaggio muore. E, in quel momento, in quei momenti, puoi solo rimanere là, immergerti nel flusso della storia, annaspare nel buio, cercare la speranza, sperare nella cura, augurandoti che il personaggio che ha vissuto il lutto trovi la luce e possa di nuovo tornare a sorridere. E, quando succede, puoi solo inchinarti. Inchinarti alla forza della vita, alla salvezza dell’amore, stringere forte la vita, come hai accarezzato piano la morte. E a fare la differenza, in quei momenti nel flusso della narrazione, è il modo con cui l’autore o l’autrice ha deciso di affrontare quel tema e quanta delicatezza ha usato per spezzarti il cuore e ricomporlo. Non succede sempre, non succede sempre efficaciemente, capita solo quando ti immergi totalmente nel racconto, capita solo quando chi scrive è bravo e ha un’anima tanto delicata da riuscirci, a dire che è tutto giusto, che è tutto naturale, che persino la morte può essere trattata con delicatezza, che persino il dolore può essere sfiorato con dolcezza, che la cura può essere costruita e raccontata un passo per volta come una carezza che sfiori le crepe del cuore e le aiuti piano piano a rimarginarsi. Non so se esiste un modo perfetto per affrontare il dolore e il suo racconto, ma di sicuro esiste il modo perfetto per te. Il modo perfetto per me. In un dato momento. In un certo luogo. In un libro. O dentro ad altre vite. E per me non è quello più semplice, di evitarlo il dolore e di evitare di raccontarne gli effetti devastanti. Non serve evitarlo, non puoi affrontarlo se lo eviti, devi attraversarlo, invece, penetrarlo fino agli abissi, scendere piano lungo discese ripide, per poi solo dopo fermarti, sollevare gli occhi al cielo e ricominciare a salire. Il dolore va sentito, per poterlo capire. Il dolore va affrontato fino in fondo, con delicatezza, con rispetto, con la voglia di accarezzare l’anima del personaggio che soffre di più e farlo attraverso le mani, gli occhi, le parole di un altro personaggio lì per curargli il cuore e per curarlo un po’ anche a tutti coloro che ci si avvicinano, chi scrive e chi lo leggerà. E, dopo, è tutto più bello. E ogni sole è ancora più splendente, come l’alba è più lucente, dopo la notte più buia. Se è vero, come dice Ermal Meta, che le stelle si possono vedere solo al buio, allora nel dolore si può scorgere, piano piano, la luce e capire che dobbiamo solo avere occhi per vederla e cuore per riconoscerla. Ho letto molto, anche di perdite, di lutti e di dolore, ma non ho mai incontrato, lungo il mio percorso di lettrice, un libro più dolce, più delicato, più perfetto di quello di cui parleremo oggi, che sapesse afrontare il dolore fino in fondo, con delicatezza, senza indugiare in modo sadico o fastidioso, ma sentendolo, attraversandolo, conoscendolo in tutta la sua devastazione, con una carezza, con una pennellata lieve, da far sentire il dolore anche in te e da versarle quelle lacrime pure tu. Seguendo ogni gesto. Avvertendo ogni scricchiolio. Ogni sguardo,ogni pensiero. E quanto la mente umana è complicata, è complessa, si inerpica su per le salite e riesce a farci sentire in colpa per momenti di pace e di benessere, come se il dovere del dolore fosse solo che noi continiamo a soffrire o ci fa sembrare che amiamo di meno se soffriamo un po’ di meno. È tutto reale. Tutto giusto. Tutto esattamente al suo posto. Ogni tassello, con una tale delicatezza, con una tale tenerezza, con un tale amore per quei personaggi, che puoi soltanto scendere con loro fino in fondo,per risalire un passo per volta e sapere che, a volte, il dolore è più vicino del previsto e di quanto vorremmo credere che fosse, quando progettiamo e immaginiamo la nostra vita perfetta, ma, forse, davvero, anche se sul momento ci pare impossibile,pure la salvezza può essere dietro l’angolo. E non posso evitare, oggi, qui, di parlare di questo tema e di farlo così. Non avrei mai potuto farlo in un altro modo. Non l’ho mai fatto in tutti questi articoli, non ho mai affrontato il lutto così, di petto, e non potevo farlo che con la mia tenerezza e la mia dedizione infinita a questo libro,a questo piccolo gioiellino, che non è abbastanza conosciuto considerando il suo valore. E appartiene al cuore, alla penna e alla sensibilità delicata di un’autrice che ha già saputo sorprendermi, accarezzarmi l’anima, spezzarmi il cuore e ricomporlo con i suoi precedenti lavori, ma che con questo ha raggiunto quello che io ritengo un alto grado di perfezione e che è riuscita a farmi leggere questa storia due volte di fila e non sarebbe mai abbastanza. Ed è un libro veramente meraviglioso, dal titolo, che è lieve e splendente come una carezza sull’anima, fino alle sue pagine, a quelle più dolorose, a quelle di ricostruzione lenta, a quelle di una perdita incalcolabile, a quelle di amore, soprattutto ed essenzialmente di amore. Perché c’è amore ovunque. E c’è amore nella perdita, nel lutto, nella delusione. Nella rabbia. E nella certezza che non si potrà mai smettere di amare chi si è perso e non è quello il modo di guarire, non è smettendo di amarlo, ma è tornare ad amare chi resta. Ed essere capaci di capire che si è sempre avuta accanto la luce, ma, forse,soltanto al buio, se ne è capito il valore, l’importanza e ciò che significa per te, una luce in grado di aspettarti, di non pretendere niente da te, di non volere nulla in cambio, se non che tu ricominci a vivere e a sorridere. E così quella che mi piace considerare un’amica,oltre che una collega straordinaria, la carissima Gennj Cappelletto scrive e pubblica il suo terzo libro, il suo terzo dono e riesce a superare quelli che credevo insuperabili baluardi di dolce tenerezza. E con questo libro ci spiega la potenza dell’amore, ancora una volta, e lo fa con infinita maestria, tessendo piano sull’anima il tappeto immenso di quanto la vita può essere crudele, ma che può anche essere bellissima. Il titolo dice già tutto e fa già vibrare, da qualche parte, le corde giuste, basta solo sapersi affidare e sapersi fidare, se le affiderete l’anima, se affiderete il cuore a queste pagine, vi capiterà di spezzarvi, di rompervi, di distruggervi in piccoli frammenti con Elliot, per Elliot, forse non come Elliot,perché nessuno di noi può provare il suo dolore, perché nessuno di noi ama Dylan come lui, ma possiamo comunque soffrire tanto e avvertire il suo dolore e camminargli al fianco e sperare,a ogni passo,che trovi la forza di vivere e di innamorarsi, innamorarsi di nuovo della vita e innamorarsi di nuovo , o forse solo tornare a capirlo, di chi è sempre stato lì, con il suo silenzio, con la sua corazza, con la sua apparente freddezza, la cui presenza riscalda molto più di ogni futile e a volte vuota parola di conforto. A volte non serve parlare e altre volte basta stare vicino, lasciarsi stringere, avere un petto a cui appoggiare la schiena e fidarsi di quell’unica voce che ti dice che passerà e che andrà tutto bene. E “Aspetterò che i tuoi sorrisi tornino a riempire il mondo” è questo. È una carezza. È un abbraccio. È essere, ognuno di noi, almeno una volta nella vita, Elliot, che ha bisogno di un abbraccio, che ha bisogno di piangere, di appoggiarsi a qualcuno di solido, di forte, di delicato, che continui a ripetere che andrà tutto bene. E che passerà, perché deve passare. Perché le lacrime devono passare. E perché il dolore deve fare meno male. Perché anche la morte deve fare meno male. E, anche se non può essere cancellata, si può sempre preferirle la vita. E non è certo una mancanza di rispetto per chi se ne va, è giusto anche per chi se ne va, è giusto per la vita, perché la vita, se è tale, se è e resta vita, non può non ricostituirsi e, quando viene spezzata, deve trovare, in qualsiasi modo sia possibile, il modo di tornare a essere integra, forse incrinata, ma pure i vasi rotti si possono riparare con striature d’oro e da ogni crepa, da ogni ferita e da ogni cicatrice della perdita, della rabbia, di una delusione dolorosissima, può entrare la luce. E deve entrare la salvezza. E questa storia è questo. È dolcezza, è vita, è scendere, è risalire. Ed è trovare il modo e il tempo di innamorarsi. Di innamorarsi, immensamente e totalmente, di queste pagine, di questi personaggi, di questo modo di narrare il dolore e la felicità e dell’amore. Rinnamorarsi della vita. Rinnamorarsi della speranza. Rinnamorarsi della lucee continuare a preferirla al buio. Perché il buio non si supera negandolo, solo affrontandolo, attraversandolo, scoprendolo fino in fondo e trovando non solo la luce alla fine del tunnel, ma pure dentro al tunnel e si comincia piano piano, lentamente, a uscire da una crepa nel muro e si torna a rimirare le stelle, anche con le cicatrici e pure con le tracce che resteranno, senza che possano impedire (e impedirgli) di brillare d’oro e tornare a sorridere. Perché il sorriso è costitutivo del volto e dell’anima di Elliot. Perché Elliot deve sorridere. Perché il suo sorriso è luce,perché la sua risata è acqua e fa vibrare qualcosa in Dominique dalla prima volta che lo ha incontrato ed è disposto ad aspettare e a fare qualsiasi cosa in suo potere per fare in modo che quel sorriso torni a splendere e quella risata torni a risuonare, non per sé, soltanto per lui, per Elliot. Dominique lo ama dal primo istante, anche se non è riuscito a farsi avanti, anche se ha visto quel ragazzo bellissimo innamorarsi di Dylan, il poliziotto suo collega e partner professionale, li ha visti essere felici, ha contemplato il loro amore crescere e ha indossato una corazza per non soccombere e, nel momento peggiore, quando il mondo di Elliot è è andato in frantumi, ha pensato solo a lui, a prendersi cura del suo cuore spezzato, a inginocchiarsi per terra nella polvere e nei vetri, cercando il cuore di quel ragazzo pieno di vita e ricordargli che non esiste niente di più importante che torni a esserlo,che torni a essere quel ragazzo pieno di vita, lo stesso che, scoppiettante, esplosivo, luminoso, è entrato quel giorno al Leclerc’s, investendolo con una raffica di parole e iniziando a fare breccia nel muro del suo silenzio. Il giorno in cui si sono incontrati ha spostato gli equilibri di entrambi, ma c’è voluto tanto tempo, c’è voluta tanta pazienza e c’è voluta tanta vita, prima che potessero combaciare alla perfezione. E ciò che c’è stato nel frattempo, se è stato doloroso per Dominique, è stato bellissimo per Elliot, senza che sia qualcosa che possa assolutamente assomigliare a un ripiego o a un rimpiazzo. Elliot sa che non ha mai visto un uomo più bello di Dominique, lo sa dalla prima volta, lo ha ripetuto al padre, con la sua personalità scoppiettante vita, mentre si prendeva una cotta per lui e si scontrava con il suo muro, con il suo silenzio, con la sua timidezza, con il fatto che appare freddo e decisamente e sul serio emotivamente costipato. E, davanti a questo, semplicemente ha lasciato perdere. HA sentito che non era per lui, ha avvertito che era inutile provare, che tanto Dom non sarebbe andato a prendere quella cioccolata, era inutile aspettarlo, era inutile crederci, era inutile dare seguito a quella cotta che gli faceva tremare il cuore e gli riempiva di sorrisi il volto pieno di vita. Semplicemente ha capito che con buone probabilità era assolutamente indifferente, se non antipatico, a Dominique, che sicuramente pensava che è un ragazzino irritante, con cui scambiare a malapena due parole. E non è uno sciocco e, quando pensa che i segnali siano inequivocabili, conclude che non può far altro che rassegnarsi e riprendere a vivere, lasciare che la vita scorra e scoprire che la felicità può essere altrove, anzi è altrove. Elliot è un ragazzo esuberante, dolce, sensibile, intelligente, molto nerd, appassionato di fumetti e supereroi, che vuole fare lo scrittore e studia Lettere all’università, che ha le magliette più assurde e fantastiche del mondo, che ha una personalità trascinante e luminosa e che non può indugiare troppo nella tristezza, che sa benissimo che a volte capita di non essere ricambiati e che ha molta fiducia nella vita, che ti dà sempre una nuova possibilità e a lui la possibilità l’ha data e l’ha presa, scegliendo la sua vita e vivendo ogni momento di quella storia stupenda con l’esaltazione della giovinezza,con la purezza dell’amore, con tutto il cuore di chi non sa nascondere nulla e non sa mentire su niente e che vive le cose, semplicemente, con tutta l’anima. Ed Elliot si innamora di Dylan con tutto il cuore, con tutto se stesso, con tutta l’anima, ed è tutto perfetto, tutto incredibile, tutto meraviglioso. Conoscere Dylan, incastrarsi con la sua vita, andare a vivere insieme, passare gli anni tra mille cose, uscire con i suoi colleghi, tra cui Dominique e continuare a irritarsi perché Dom prosegue a dimostrargli freddezza e antipatia, a rivolgergli poche parole, come se la sua presenza gli desse fastidio. E niente è più incredibile di quella serata in cui è infastidito perché,invece di poter andare tranquillamente a casa, deve recarsi al locale in cui lavora, per sostituire il collega che sta sempre male e si ritrova una sala piena di gente, suo padre, il suo migliore amico Simon, tutti i loro amici e conoscenti, Dominique, il mondo intero, persino il suo datore, tutti in attesa, tutti felici (solo Dom pare indifferente), in una splendida sorpresa che ha contorni fiabeschi, quando la vita sa farsi favola: Dylan è davanti a lui, è il suo bellissimo, divertente, intelligente e appassionato fidanzato da tre anni ed è lì per ricordargli e per dirgli che lui ha dato senso alla sua vita e noi siamo con Elliot a commuoverci, mentre continua a piangere, a piangere, a piangere di emozione, di commozione, di amore, con tutta la mente e il cuore che cominciano a capire e urla “sì!”, prima che il suo ragazzo finisca di chiederglielo. La felicità di Elliot e Dylan è completa. Non manca niente. Mancano solo cinque mesi al loro matrimonio, al momento in cui uniranno le loro vite per sempre e i preparativi sono già frenetici e ferventi, manca un mese a Natale, la festa adorata da Elliot, ed è a casa, è sera, sa che Dylan rientrerà tardi, perché è impegnato con Dominique in un’operazione importante, che sembra che finalmente possa concludere un’indagine che li ha tenuti molto occupati negli ultimi mesi, e corre ad aprirgli, perché di sicuro è il suo ragazzo che ha scordato un’altra volta le chiavi, è pronto a ridere, a prenderlo in giro, a scherzare, ma davanti alla sua porta non c’è un Dylan distratto, ma c’è un Dominique devastato. E, in quel momento, tutta la vita di Elliot cade in mille pezzi. La desolazione di Dominique è palpabile, gli dispiace infinitamente, il dolore è evidente sul suo volto freddo e ciò che prova in quel momento comincia a trapelare, forse per brevi istanti, un dolore profondissimo per un amico e collega e per quel ragazzo lì, davanti a lui, che spera di non aver capito, che vorrebbe solo negare che sia vero e che va in pezzi lentamente, o forse si spezza solo all’improvviso: Dylan è morto durante l’operazione,gli hanno sparato e Dominique è costretto a dirlo a Elliot e a vederlo rompersi sotto i suoi occhi. Elliot non può crederci. Non vuole crederci. E sente che la sua vita perde di senso. Niente ha più senso, nessuna cosa ha più senso. Dylan non è con lui. Dylan non tornerà più. Dylan l’ha lasciato solo in quel mondo. Non può sopportarlo. Non può sopportare quella vita. Una vita senza Dylan. Senza il suo amore. è inconcepibile, è intollerabile, è pesante. È dolorosa. È troppo dolorosa. Vuole stare solo. Ha bisogno di stare solo. E di piangere,soltanto di piangere. Di trascurarsi. Di rifugiarsi nella desolazione e di non poter credere che la vita gli ha fatto questo. È arrabbiato, è addolorato, è in mille frantumi. Un ragazzo pieno di vita piegato e spezzato dal dolore più grande che una persona possa provare,perdere chi ama, perderlo così, perderlo all’improvviso e rendersi conto che deve cercare il modo, in qualsiasi maniera,di farcela, di sopravvivere, di respirare senza singhiozzare, ma si sente uno schifo,si sente un disastro e non sa dove andare, non sa come reagire e si trova al buio, davanti alla devastazione e alla disperazione. E, in quei momenti, nei momenti in cui sembra che niente possa più acquistare senso, c’è Dominique. È sempre lì, accanto a lui, pronto a soccorrerlo,a obbligarlo a lavarsi e a cambiarsi, a costringerlo ad andare all’università,a tirarlo fuori da una casa piena di ricordi, a fargli muovere un passo per volta, senza l’apprensione che può essere del padre e di Simon, ma con una delicatezza capace di insinuarsi oltre la coltre del dolore e con una determinazione che sa esattamente dove andare, come smuoverlo e come riuscire a dirgli e a convincerlo che andrà tutto bene,anche quando a Elliot sembra che vada tutto male. Dominique è lì. Paziente, costante, senza la pietà fastidiosa, che può far indulgere nell’autocommiserazione. Ha un rispetto profondissimo per il dolore di Elliot e ha infiniti riguardi nei suoi confronti, ma non sono riguardi che giustificano il lasciarsi andare o l’evitare di prendersi cura di sé, piuttosto sono riguardi in grado di scuoterlo,di metterlo davanti alle cose, di farlo incazzare se serve e di farlo svegliare, senza tuttavia esagerare o ferirlo con la sua determinata fermezza. Quella di Dominique non è durezza, è soltanto voglia di aiutare e bisogno che Elliot sia in piedi, che reagisca,che torni a essere l’Elliot bellissimo che lo ha fatto innamorare, l’Elliot bellissimo che ama da sempre, in silenzio. Ed Elliot comincia a intravedere, sul volto di Dominique, piccole finestre sul cuore e sulla vita, perché il poliziotto silenzioso non è così duro come aveva creduto, perché ha molto dolore dietro la sua scontrosità, perché non ha mai provato antipatia nei suoi confronti e perché riesce a capirlo, come nessuno mai prima,forse neppure se stesso. Forse il dolore non si annullerà mai del tutto, di sicuro continuerà ad amare Dylan, nonostante tutto e nonostante la nuova cocente delusione che deve affrontare, ma ha scoperto che la vita può essere bellissima, che forse è inutile riempirsi la mente di “e se”e può semplicemente vivere ciò che viene, la luce e l’infinito di due occhi verdi come prati in primavera in una giornata di neve e in tutti gli istanti di un futuro che, solo a immaginarlo, gli fa tornare a fremere il cuore e gli colma lo sguardo e la’nima e, mentre la tenerezza colma queste pagine, noi ci sciogliamo lentamente e sentiamo brividi di meraviglia solcarci la schiena e ascoltare, piano, una frase che io continuo a sentire e a risentire in qualche angolo della mia anima mentre scrivo, di una tenerezza, di una magnificenza, d una purezza che disorienta per la sua potenza e cura per la sua grandezza, una preghiera, una richiesta, un desiderio, un bisogno, una carezza e tutto l’amore che non si stancano di ripetere e di rinnovare, tra i baci e l’universo: “Fai l’amore con me, ti prego, fai l’amore con me”

© Arianna Frappini,

Intellettuale orientalista con particolare interesse per la cultura araba

Riproduzione riservata

Fonti:

Varie interviste di Ermal Meta

“Aspetterò che i tuoi sorrisi tornino a riempire il mondo”, Gennj Cappelletto, Triskell Edizioni, 2023, ISBN ebook: 9791220706735, ISBN edizione cartacea: 9791220706742

Foto screen dall’ebook

Autore: Arianna Frappini

Arianna Frappini (Gualdo Tadino, 1997) studia lettere all’università di Perugia. Esordisce nel 2013 con la raccolta poetica Di una vita (Aletti). Nel 2020 pubblica il suo primo romanzo, L’ultimo dono prima di morire (Albatros-il Filo). Gestisce il blog Oltre, che ospita varie rubriche tra cui “Libri senza pregiudizi”, sulle letterature straniere meno note in Italia, e “Emozioni da lupi”, sulla musica di Ermal Meta.

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